sabato 18 giugno 2011

I GRUPPI DI AUTO-AIUTO: CARATTERISTICHE ed EFFICACIA




ASPETTI GENERALI

L’Organizzazione Mondiale della Sanità, nel 1983, ha fatto rientrare sotto l’etichetta “autoaiuto”, tutte quelle misure che sono adottate da non professionisti per promuovere o recuperare la salute di una determinata comunità o gruppo sociale. Caplan (1974) ha suddiviso i gruppi di autoaiuto in base alle loro finalità definendo in questo modo tre tipi di gruppo: 1) persone che si trovano ad affrontare periodi di transizione nella loro vita, rapidi cambiamenti di ordine culturale o disorganizzazioni sociali; 2) persone che condividono un problema, una disabilità o qualche altra difficoltà (definiti anche “Insieme di Analoghi”) e che nel gruppo si scambiano reciproco sostegno; 3) persone che nei gruppi costituiscono una nuova comunità in cui possano coinvolgersi, pensiamo ad esempio a genitori senza coniuge. Da questo punto di vista Colaianni (1999, p. 30) definisce i gruppi d’autoaiuto come “gruppi per il cambiamento sociale” o anche come “Contesti d’apprendimento/cambiamento”.

Per meglio comprendere il funzionamento dei gruppi di auto aiuto può essere utile definirne le caratteristiche principali (Katz e Bender, 1976):

§ Il numero limitato di partecipanti consente di sviluppare relazioni e processi affettivi stretti fra i membri;

§ Sono centrati su specifici problemi e sofferenze dalla cui condivisione discende la similarità delle storie di vita. Si tratta di una simmetria tra i membri che deriva da una situazione di disagio e da un bagaglio esperienziale simile. L’aiuto che viene scambiato consiste generalmente in attività intraprese dai membri proprio rispetto a questi problemi;

§ Le origini di questi gruppi sono, di solito, spontanee anche se più recentemente molti di essi sono istituiti da organizzazioni quali i servizi sociali;

§ Condividono obiettivi comuni ed emersi dal gruppo stesso più che determinati dall’esterno;

§ La comunicazione è di tipo orizzontale, tutti possono partecipare in modo personale, allo scambio reciproco d’informazioni, racconti ed emozioni, rispettando gli altri e senza accentrare su sé stessi la discussione.

§ Vi è un coinvolgimento ed una partecipazione personale dei membri.

§ Aiutare se stessi e gli altri è la norma espressa dal gruppo. L’enfasi è posta sulla cooperazione e sulla mutualità tra i membri, sull’utilità della propria partecipazione e impegno a vantaggio dell’altro e del gruppo. Ed è proprio chi aiuta l’altro che maggiormente può beneficiare del sostegno, secondo il noto principio dell’Helper;

§ E’ attraverso la sperimentazione di nuove modalità di comportamento, di modi di sentire e trasmettere i propri vissuti che diventa possibile elaborare, cognitivamente ed affettivamente, una nuova forma di conoscenza ed aumentare la stima di sé. La competenza è basata sull’esperienza concreta più che sulla formazione specialistica (Grosso, 1992).

§ Potere e leadership sono condivisi alla pari e tendono a ruotare tra i vari membri del gruppo in base a contingenze, capacità, meriti e livello di esperienza di volta in volta raggiunti dai membri.

§ La condivisione di certe condizioni o difficoltà oltre a definire il senso d’appartenenza al gruppo aldilà delle differenze di età, sesso, status socioeconomico ecc., ne determina la mutualità.

§ Lo scopo è quello di procurare aiuto e sostegno ai membri del gruppo nell’affrontare i loro problemi e nel migliorare la loro efficienza psicologica.

§ L’origine e l’approvazione devono derivare dagli stessi membri del gruppo. Nel caso il gruppo nasca per iniziativa di un professionista, esso deve poi continuare la propria attività in maniera indipendente.

§ La fonte d’aiuto risiede negli sforzi, nelle capacità e nelle competenze dei membri in relazione tra loro come pari.

§ Vi è un orientamento non competitivo ma cooperativo fra i membri

Katz e Bender (1976) classificano i gruppi d’autoaiuto in base al loro focus principale:

1. Gruppi focalizzati sull’autorealizzazione e sulla crescita personale, considerati gruppi terapeutici;

2. Gruppi più centrati sulla difesa sociale, attraverso campagne di sensibilizzazione, confronto con le istituzioni, ecc.;

3. Gruppi focalizzati sulla ricerca di stili di vita alternativi;

4. Gruppi per emarginati e persone svantaggiate, come luogo sicuro;

5. Gruppi misti, con due o più delle precedenti caratteristiche.



Francescato (1995) propone una classificazione dei gruppi d’autoaiuto che tiene conto principalmente delle finalità perseguite dal gruppo e della sua composizione.

1. Gruppi per l’eliminazione o il controllo di comportamenti problematici.

I cui componenti lottano per uscire da una dipendenza, che sia da una sostanza (es. alcol, fumo, cibo), da un’altra persona (dipendenza affettiva) o da stili di vita pericolosi per se o per gli altri (gioco d’azzardo, violenza sui figli). Attraverso l’identificazione ed il modellamento con persone che sono più avanti nel percorso di cambiamento, i membri dei gruppi acquisiscono fiducia rispetto alla possibilità di poter mutare i propri comportamenti ed aumentano la propria autostima.

2. Gruppi per handicappati o malati cronici.

Si tratta di persone portatrici di problematiche fisiche o psichiche, spesso costrette a tenere sotto controllo la propria salute con diete particolari, terapie, limitazione dei comportamenti (es. infartuati, diabetici, schizofrenici). Il gruppo aiuta a raggiungere un buon livello di autoresponsabilizzazione, aumenta la percezione positiva di se come persone che possono fare qualcosa per stare meglio e che possono essere utili per se e per gli altri.

3. Gruppi di parenti di persone con problemi gravi.

Costituiscono questi gruppi persone i cui congiunti sono portatori di problematiche che rientrano nelle due precedenti categorie della classificazione.

Parenti di alcolisti o tossicodipendenti, di pazienti psichiatrici, persone affette da tumore ecc., sono spesso soggette ad alti livelli di stress, tali da poter divenire minaccia per la loro stessa salute, fisica e psichica. Attraverso lo scambio d’informazioni, il supporto emotivo ed anche l’aiuto materiale ognuno riceve e dà sostegno sociale il che ha anche un effetto tampone rispetto alle conseguenze dello stress prolungato.

4. Gruppi di persone in situazione di crisi.

Composti da soggetti che attraversano un periodo di crisi legato ad un evento negativo come una separazione, un lutto od un trasferimento; ad un evento positivo che stravolge la loro vita, ad esempio un’adozione o la nascita di un figlio; un cambiamento che incide sulla propria identità, comunemente il pensionamento o la menopausa. Attraverso la condivisione di un’esperienza, grazie ai meccanismi di identificazione e aiuto reciproco si può uscire dalla situazione difficile competenti e rafforzati.



QUALI DINAMICHE E PROCESSI SI INNESCANO NEI GRUPPI DI AUTOAIUTO?

Generalmente una prima cosa che un membro comprende, quando entra a far parte di un gruppo d’autoaiuto, è che il suo problema non è poi così raro (“qualcuno sa come mi sento, non sono solo”) e ciò ha un suo primo effetto positivo nel superamento della sensazione d’isolamento. Francescato (1995) definisce questo fattore “universalità”. A chi ha vissuto uno stesso nostro problema o si trova nella nostra condizione, riconosciamo inoltre il diritto e la “competenza” di parlare in merito ad essa, la sua comprensione è più genuina e le sue parole risultano più efficaci e credibili. La “parità” tra i membri del gruppo supportata da processi comunicativi orizzontali e lo scioglimento di ruoli rigidi facilita il sostegno, la condivisione, il confronto ed il superamento di quei meccanismi di difesa che impediscono di affrontare i problemi. Liss (1996) chiama questo scambio fra pari “Collaborazione Reciproca”.

Per Francescato (1995), la possibilità di incontrare nei gruppi persone che, pur con lo stesso problema, sono riuscite a superarlo o affrontarlo, è la base affinché avvenga ciò che ha definito “infusione di speranza” e possa svilupparsi quel senso di fiducia attraverso il quale il cambiamento diviene pensabile e possibile e con esso il processo di empowerment. Altro aspetto riguarda il noto “Principio dell’helper therapy”: nel gruppo d’autoaiuto, colui che si pone nel ruolo di chi presta aiuto è proprio colui che ne riceve maggior beneficio, così che l’aiuto offerto finisce per avere una doppia valenza, interna alla persona e relazionale. Questo avviene perché chi aiuta, oltre a sentirsi meno dipendente, sperimenta l’efficacia del proprio aiuto, la propria utilità sociale e ne riceve riconoscimento dagli altri partecipanti. Nei gruppi d’autoaiuto l’individuo passa da una situazione d’impotenza appresa (learned helplessness) a una di autoefficacia (selfefficacy) (Gartner e Reissman, 1984). L’annullamento della differenza tra chi cura/aiuta e chi è curato/aiutato innesca un meccanismo di sblocco della passività e di liberazione dal senso di impotenza e sfiducia in se stessi. E’ nel far pratica “d’interdipendenza” reciproca che avviene l’innalzamento dell’autostima: chi deve dipendere da altri mostra fierezza e soddisfazione nel sostenere qualcuno che può a sua volta dipendere da lui (Francescato, 1995).

Nei gruppi d’autoaiuto, inoltre, avviene un tipo d’apprendimento che non è possibile fare altrove, basato sull’esperienza diretta, sul confronto sociale, sulla sperimentazione attiva di nuovi comportamenti, sia all’interno del gruppo che fuori. Nell’assumere il ruolo di colui che aiuta, ad esempio del non bevitore che aiuta chi beve, ogni membro assimila comportamenti e aspettative che sono connesse con il ruolo, appunto, del non bevitore (Gartner e Reissman, 1979).

Il problema centrale e condiviso dal gruppo solitamente viene sottoposto secondo Robinson (1980, in Noventa et al., 1990), ad una ridefinizione, decostruzione e ristrutturazione cognitiva attraverso cui ogni partecipante apprende modalità nuove di gestione dello stesso e soluzioni pratiche più efficaci. Il gruppo di autoaiuto può essere un luogo di riduzione delle stigmatizzazione e dell’etichettamento a cui ciascun membro è soggetto nella realtà. In questo senso l’appartenenza al gruppo in quanto affermazione di un’identità anche di malattia (sono un alcolista) aiuta a ridurre lo stigma sociale e aumenta l’accettazione del soggetto (Katz, 1970). Secondo Maguire (1989) il sentimento di appartenenza al gruppo, dato dal senso di similarità aumenta la coesione, l’accettazione e il sostegno.

Questo stato di forte aggregazione tende poi ad influenzare il modo di pensare ed i comportamenti dei membri, verso il conformismo. Da questo punto di vista i gruppi d’autoaiuto sono fortemente “persuasivi” (Antze, 1976), poichè attraverso il coinvolgimento dei membri, riescono a far assimilare ai partecipanti le idee del gruppo stesso. Nel momento in cui un membro del gruppo fornisce consigli e informazioni, in realtà non fa altro che rinforzare in sé le convinzioni maturate nel gruppo.

I momenti e le opportunità di socializzazione divenendo uno dei fattori più significativi della nuova esperienza dei partecipanti (Noventa et al., 1990). Altro aspetto rilevante riguarda l’impatto emozionale che il gruppo ha nei confronti dei vari partecipanti in quanto contesto affettivo significativo. I gruppi sviluppano emozioni molto forti la cui condivisione a sua volta aumenta la coesione dei gruppi stessi. (Noventa et al. 1990). Studi sull’efficacia sono stati condotti per una grossa parte delle diverse tipologie di gruppo d’autoaiuto esistenti. La partecipazione a gruppi d’autoaiuto oltre a rendere più responsabili i membri rispetto alla propria salute, agisce rendendo i soggetti più capaci di comprendere la propria condizione e di aderire meglio ai protocolli terapeutici e riabilitativi (compliance terapeutica). Sembra inoltre che il sostegno ricevuto in gruppo si traduca in un effetto positivo sulla risposta immunitaria (Spiegel et al. 1981).



CIRCA L’EFFICACIA…

A risultati simili sono arrivati studi condotti con il metodo sperimentale, su persone con melanoma maligno (Fawzy et al., 1990). Essere parte di un gruppo d’autoaiuto, per persone nelle prime fasi del cancro della pelle, oltre a migliorare l’umore e le capacità di “coping”, aumenterebbe le possibilità di sopravvivenza tre volte di più in un periodo di cinque anni. Spiegel (1993) suggerisce quindi che gli interventi psicosociali possono rallentare la progressione del disturbo. Anche per Silliman e colleghi (1993) in sinergia con altri fattori, la quantità di supporto sociale influenzerebbe l’efficacia del trattamento.

In accordo con questi studi, Munsell, Brisson e Deschenes (1993, in McLean 1995), sostengono che il supporto sociale può essere associato con una più lunga vita in donne con cancro localizzato, mentre Gray et al. (1995) hanno evidenziato che la partecipazione a gruppi di self-help è estremamente utile nella lotta contro il cancro, sia a breve sia a lungo termine.

Il sostegno fornito dai gruppi d’autoaiuto diviene un valido coadiuvante degli effetti delle cure mediche tradizionali anche in molte condizioni croniche. Hinrichsen e Revenson (1985) hanno condotto uno studio su cento adulti, portatori di scoliosi, sottoposti a cure mediche tradizionali. Coloro che ricevettero il supporto del gruppo riportarono una visione più positiva della vita, miglior soddisfazione per le cure mediche ricevute, riduzione dei sintomi psicosomatici, incremento del senso di padronanza, aumento dell’autostima e riduzione dei sentimenti di vergogna e alienazione. I gruppi di self-help si sono rivelati efficaci nel fornire supporto a donne affette da HIV (Metcalfe, Langstaff, Evans et al., 1998). Tale supporto sarebbe anche in grado di ridurre lo stress psicologico ed immunitario tra uomini con comportamento omosessuale diagnosticati come HIV positivi (Schneiderman et al., 1990).

Gli studi che si sono concentrati su gruppi d’autoaiuto per persone dedite all’uso di droghe, legali o illegali, sono quelli in cui gli effetti sono stati maggiormente documentati. Uno studio sull’efficacia dei Club di Alcolisti in Trattamento, gruppi per famiglie con problemi alcolcorrelati molto diffusi in Italia che utilizzano la metodica dell’autoaiuto, ha evidenziato un tasso di mantenimento dello stile di vita sobrio della famiglia, nel 70% dei casi a tre anni dall’inizio della partecipazione al gruppo (Toniutti, 1997). Cornwall e Blood (1998) si sono dedicati alla verifica dell’efficacia di trattamenti in soggetti ricoverati, o in day-hospital, per l’abuso di stupefacenti. I trattamenti, che comprendevano la partecipazione a gruppi di self-help per 10 settimane, mostrarono la capacità di ridurre l’abuso di sostanze e di migliorare il livello complessivo di funzioni e comportamenti.

Altri studi si sono dedicati al confronto dell’efficacia, nella lotta alla dipendenza da nicotina, di gruppi self-help (Jason, Gruder et al., 1987) rilevando risultati positivi.



Gli studi che si sono dedicati alla verifica dell’efficacia dei gruppi di self-help nell’ambito dei problemi di salute mentale hanno evidenziato la loro forza nel migliorare alcuni parametri di benessere psichico, quali l’autostima e la fiducia in se stessi (Lieberman, Solow et al. 1979) e la capacità di far fronte alla propria malattia (Kurtz, 1988). I membri dei gruppi di self-help per la salute mentale risulterebbero meno preoccupati e più soddisfatti delle proprie condizioni di salute e di vita (Raiff, 1984). La maggior parte di queste indagini, inoltre, ha rilevato una riduzione sia nel numero sia nella durata dei ricoveri. I pazienti diverrebbero più capaci di utilizzare risorse non psichiatriche al di fuori dell’ospedale (Galanter, 1988). Molte ricerche hanno evidenziato l’utilità dei gruppi di self-help, per persone affette da diabete, nel senso di una riduzione dei sintomi psicologici connessi alla malattia, di una maggior conoscenza della stessa ed una maggior soddisfazione per la qualità della propria vita, a tutto questo si connetterebbe un miglior controllo della glicemia.

Alcune ricerche hanno reso evidente il ruolo che i gruppi di self-help possono svolgere nell’ambito della prevenzione, in particolare nei confronti delle possibili conseguenze di eventi traumatici, come la perdita di un figlio o di un coniuge, incidenti o malattie acute. In persone sessantenni che hanno perso il coniuge, se membri di gruppi self-help per il lutto, sperimentavano meno depressione e angoscia di chi non ne faceva parte (Caserta e Lund, 1993).

La partecipazione ad un gruppo d’autoaiuto per familiari di pazienti psichiatrici permette una riduzione del senso di oppressione vissuto dalla famiglia fornendo informazioni circa la malattia e le strategie di “coping” (Potasnick e Nelson, 1984).


domenica 12 giugno 2011

Cos'è il BINGE EATING DISORDER (BED):

Il Binge Eating Disorder
Intorno alla fine degli anni 50 venne osservato come in diversi casi di obesità era rilevabile un comportamento alimentare caratterizzato da una forte compulsività e dal consumo di elevate quantità di cibo in tempi molto ridotti (Caputo, et al., 1994). Tale condotta alimentare venne successivamente denominata Binge Eating Disorder (BED) e, poiché strettamente legata alla presenza di disturbi dell’umore, venne compresa nel DSM-IV (APA, 1994) fra i cosi detti “disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati” (ED-NOS). Il Disturbo da Alimentazione Incontrollata, il cui sintomo principale è appunto l’abbuffata compulsiva, risulta presente oltre che in alcune forme di grave obesità anche nella bulimia e nell’anoressia nervosa. Da un punto di vista strettamente fenomenologico-descrittivo, il BED è caratterizzato dall’assunzione da parte del soggetto, in un periodo di tempo limitato, di una quantità di cibo molto maggiore rispetto a quella che la grande maggioranza delle persone mangerebbe nello stesso tempo, accompagnata dalla sensazione di una perdita di controllo riguardo a quanto, come e cosa si stia mangiando e da una alterata percezione o dall’assenza della sensazione di fame. I criteri utilizzati per poter porre la diagnosi di BED sono:
  1. Ricorrenti episodi di abbuffata, come nella bulimia nervosa;
  2. Gli episodi di abbuffata si associano a tre o più delle seguenti condizioni:
    • Mangiare molto più rapidamente del normale;
    • Mangiare fino a sentirsi sgradevolmente sazi;
    • Mangiare ingenti quantitativi di cibo quando non si avverte la sensazione fisica della fame;
    • Mangiare da soli a causa dell’imbarazzo che deriva dall’abbondante quantitativo di cibo che viene ingerito;
    • Sentirsi disgustati da sé stessi, depressi e molto colpevoli dopo essersi abbandonati all’abbuffata.
  3. E’ presente un forte disagio riguardo all’abbuffata;
  4. L’episodio di abbuffata si è verificato, in media, per almeno due volte alla settimana per 6 mesi;
  5. L’episodio  di abbuffata non si associa al regolare ricorso a condotte compensatorie inappropriate e non si presenta unicamente nel corso di bulimia nervosa o anoressia nervosa.
Le abbuffate generalmente avvengono in solitudine e sono frequentemente associate ad un tono dell’umore depresso nel soggetto e da sentimenti di imbarazzo, vergogna e disgusto per il proprio comportamento.
La casistica raccolta presso l’istituto Auxologico Italiano (Molinari, Riva, 2004) ha individuato una incidenza del BED nella popolazione di soggetti obesi in trattamento valutata intorno al 19%, mentre altri studi riportano valori fra il 20 e il 30% (Marcus, et al., 1995). Ciò che interessa sottolineare è il fatto che la presenza del BED rende molto più complicata la condizione di obesità del soggetto sia a livello prognostico sia nell’ottica del trattamento terapeutico a causa della presenza di un significativo disturbo dell’umore generalmente di tipo depressivo o, meno frequentemente, di tipo ossessivo-compulsivo, oppure di un disturbo border-line di personalità. Gli obesi BED, in generale, mostrano rispetto ai non BED, maggiori livelli di depressione, di ostilità e di rabbia espressa correlata ad impulsività. Alcune ricerche (Molinari, Riva, 2004) orientate a stabilire l’influenza dei tratti di personalità sull’atteggiamento nei confronti del cibo in soggetti obesi hanno rilevato come la presenza di alti livelli d’ansia e di valori elevati nelle scale depressione e devianza sociale del Minnesota Multiphasic Personality Inventory (MMPI-2) (Butcher, 1990) fosse associata ad abitudini alimentari tendenzialmente disturbate e ad atteggiamenti bulimici nei confronti del cibo.
La letteratura (Istituto Auxologico Italiano, 2006) riporta come i familiari di soggetti BED presentino con maggior frequenza un’obesità grave (BMI > 40) rispetto a familiari di soggetti non BED. Altro aspetto rilevante riguarda la frequente presenza nei soggetti binge eating di caratteristiche alessitimiche con incidenze che possono raggiungere anche valori intorno al 60% (Cochrane, et al.,1993). Questi soggetti in cui è frequentemente la presenza di una personalità borderline, mostrano un uso del pensiero prevalentemente operatorio ed una scarsa capacità di rappresentare simbolicamente le proprie emozioni e di comunicare i propri stati interiori entro i rapporti interpersonali.
Appare evidente, dunque, come l’obesità, da un punto di vista psicopatologico, non possa essere considerata un fenomeno unitario (Bruch, 1973), visti i quadri clinici differenti che spesso concorrono a determinare nel soggetto un comportamento alimentare abnorme e disfunzionale. La possibilità di attivare opzioni terapeutiche mirate passa, pertanto, attraverso un’attenta diagnosi differenziale fondata sull’analisi delle caratteristiche di personalità della persona obesa e sulla capacità di distinguere gli aspetti psichiatrici che hanno avuto una parte nello sviluppo dell’eccesso ponderale da quelli che ne sono diventati la conseguenza.

mercoledì 8 giugno 2011

CORSO E-LEARNING: IL PROCESSO DI PROGETTAZIONE DI INTERVENTI INAMBITO ORGANIZZATIVO E SOCIALE . 10° EDIZIONE INIZIO 20 GIUGNO

PRESENTAZIONE
 
Progettare significa pianificare la propria azione professionale entro diversi contesti organizzativi in conformità degli obiettivi operativi e degli scopi strategici che si intendono raggiungere a partire da vincoli, risorse, aspettative ed esigenze del sistema cliente, rendendo sempre verificabile l’itinerario metodologico proposto.
La progettazione rappresenta una competenza professionale specifica dello psicologo relativa al saper “leggere” le realtà in cui è chiamato ad intervenire proponendo coerenti obiettivi di sviluppo.
L’itinerario formativo-esperienziale proposto prevede la possibilità di individuare aree problematiche nei sistemi sociali di varia natura entro cui promuovere la propria azione professionale, la costruzione della committenza, le caratteristiche generali e le fasi della progettazione, il monitoraggio e la valutazione del progetto.
 
OBIETTIVI FORMATIVI
 
Il corso ha come obiettivi:
offrire utili conoscenze teoriche e metodologiche sul processo di progettazione nel sociale;
proporre un utile supporto alla preparazione della prova pratica dell’esame di stato;
prospettare uno spazio di pensiero e riflessione comune e condivisa sui casi studio presentati dai docenti e sulle eventuali esperienze di tirocinio dei partecipanti.
 
DESTINATARI
 
Il corso è rivolto a studenti e professionisti delle Scienze psicologiche e sociali, che intendono integrare e potenziare le proprie competenze teoriche e metodologiche nell’ambito degli interventi psicologico clinici e sociali.
Il corso è altresì adatto ai dottori in Psicologia in procinto di affrontare la prova pratica dell'esame di stato.
 
TUTOR
 
Dott. Carlo Foddis: Psicologo Specialista in Psicologia Clinica e Psicoterapeuta. Ha lavorato come consulente nelle  aree della selezione del personale, progettazione e consulenza organizzativa per aziende di medio e piccoledimensioni. Coordina le attività dello Studio Professionale PROSPETTIVE PSICOSOCIALI.
Dott.ssa Elena Roveglia: Psicologa Specialista in Psicologia Clinica e Psicoterapeuta, Psicologa di Comunità ed Esperta in processi formativi. Socia Associazione Attraversamenti.
 
METODOLOGIA DIDATTICA
 
Il corso viene erogato secondo una modalità di comunicazione asincrona, che non prevede la partecipazione simultanea dei partecipanti, caratteristica che lo rende ben gestibile in qualsiasi orario della giornata, anche per chi lavora e ha poco tempo disponibile.
L’approccio utilizzato è basato sull’apprendimento collaborativo e prevede la partecipazione attiva di ciascun partecipante alle discussioni didattiche e il continuo confronto con gli altri colleghi.
In particolare é previsto l’utilizzo di:
  • Sessioni di studio individuale con il supporto di materiali didattici appositamente realizzati
  • Sessioni dedicate alla condivisione di informazioni attraverso il forum online
  • Esercitazioni ed analisi di case studies
 
MODALITA DI PARTECIPAZIONE
 
Per poter fruire del corso, bisogna avere a disposizione un PC con connessione ad Internet (non è necessario l’ADSL).
Il primo giorno di corso, viene inviata a tutti gli iscritti un’ e-mail contenente il link all’aula virtuale di Obiettivo Psicologia, una semplice procedura di registrazione all’aula e una password per l’accesso.
Nell’aula virtuale vi sono le dispense didattiche, il forum di discussione moderato dal Tutor e le esercitazioni da svolgere
 
DATE E ORARI

 
Il corso inizia il giorno 20 Giugno 2011 e dura tre settimane.
Durante le tre settimane di corso ciascun partecipante potrà accedere all’aula virtuale in qualsiasi momento, 24 ore su 24, per leggere e rispondere alle discussioni, fare domande ai Tutor, scaricare i materiali didattici e partecipare alle attività proposte.
I partecipanti potranno di conseguenza adattare il percorso ai propri tempi e spazi, in maniera estremamente flessibile e senza orari rigidi.
I Tutor intervengono nei forum di discussione tutti i giorni eccetto i sabati e le domeniche.
 
CONTENUTI
 
Il corso si articola in 2 moduli:
MODULO 01
Approfondisce le dimensioni che precedono la stesura di un progetto di intervento:
Come e perché nasce un progetto? A partire da quali aree problematiche? Con quali obiettivi di sviluppo? Entro quali contesti?;
Individuazione dei potenziali committenti. Chi pone la domanda e chi è il cliente dell’intervento? Costruzione della relazione con il cliente;
Individuazione delle risorse e valutazione della fattibilità dell’intervento.
Esercitazioni, sotto forma di casi, centrate sull’analisi della domanda e dei bisogni del sistema committente nell’ambito di intervento psicologici in diversi contesti.
MODULO 02
Si basa sulla pianificazione di un impianto progettuale attraverso l’identificazione degli obiettivi che si vogliono perseguire con l’intervento, coerentemente con l’analisi del problema effettuata:
tappe della progettazione di un intervento (ideazione, attivazione, progettazione, realizzazione, valutazione);
stesura del progetto (premessa, finalità, obiettivi, target, metodologia e attività, budget);
valutazione della coerenza tra obiettivi individuati e metodologie applicate.
Esercitazioni, sotto forma di casi, centrate sulla stesura di progetti di intervento in diversi contesti.
 
ATTESTATO
 
Al termine del percorso verrà inviato l’Attestato di Partecipazione, tramite posta prioritaria, ai partecipanti che avranno svolto e consegnato le esercitazioni previste dal corso entro i tempi di consegna indicati.
 
ISCRIZIONE E AGEVOLAZIONI
 
Il corso è a numero chiuso per un massimo di 18 partecipanti.
La quota di iscrizione è di 135,00€ (Iva inclusa).
Gli abbonati a Liberamente usufruiranno della quota ridotta di 115.00 euro (Iva inclusa).
La quota di iscrizione comprende le dispense didattiche e le esercitazioni, con feedback del tutor.
Il pagamento può essere effettuato con bonifico bancario o conto corrente postale, in base ai dati indicati sul modulo d’iscrizione.
E’ possibile richiedere il modulo di iscrizione in due modi:
  • Inviando una mail all’indirizzo learncomm.fol@opsonline.it, specificando il titolo del corso ed allegando il  proprio curriculum vitae
  • Compilando il form online di richiesta modulo
Per perfezionare la propria iscrizione ad un corso è necessario compilare il modulo con i propri dati, firmarlo ed inviarlo assieme alla copia del versamento effettuato ai recapiti riportati sul modulo stesso.
 
CONTATTI
 
Per ogni informazione aggiuntiva potrai contattare la nostra Segreteria dal lunedì al venerdì dalle 10.00 alle 13.00 e dalle 14.00 alle 17.00 ai seguenti recapiti:

martedì 7 giugno 2011

L'ASMA INFANTILE: ULTERIORI APPROFONDIMENTI

1. L’ASMA: ASPETTI GENERALI

L’asma bronchiale è una tra le malattie croniche più frequenti in età pediatrica. In Italia si stima che la percentuale di bambini affetti da asma sia compresa fra il 7 e il 9%, di cui tre su quattro sviluppano i primi sintomi respiratori entro i primi tre anni di vita (Ammaniti, 2001).
Il continuo aumento dei disturbi respiratori in età infantile che, in tempi recenti, si è registrato nel mondo occidentale, ha messo sotto accusa diversi fattori come smog, fumo e cambiamenti climatici (che alterano la durata della stagione dei pollini), accanto a più generali condizioni e stili di vita dei paesi industrializzati.
Peraltro, lo studio del complesso fenomeno della respirazione e delle sue possibili disregolazioni richiede l’attenta considerazione, oltre che delle condizioni generali dell’ambiente, di quelle specifiche dell’organismo. Queste ultime comprendono sia i processi neurofisiologici del respiro, regolati dai centri bulbo-ponto-mesencefalici, sia le funzioni cognitive, volontarie e simboliche dell’individuo, che possono esercitare un influenza sul ritmo, la frequenza e la profondità del respiro in relazione alle situazioni.
La respirazione, infatti, è una funzione “mista” in quanto, fra le grandi funzioni vegetative, è l’unica ad avere un doppio sistema di controllo, autonomo e volontario (Franceschi Dusi, 1991).
Possiamo così definire l’asma come un forma disregolativa del tono broncomotore, caratterizzata da una reazione eccessiva a stimoli specifici ed aspecifici di varia natura, ai quali il sistema respiratorio risponde in modo “amplificato” con una iperreattività bronchiale (Franceschi Dusi, 1991).
L’utilità di questa definizione sta nel porre l’accento sul fatto che l’asma bronchiale è essenzialmente una sindrome, ovvero un complesso di sintomi e segni che riconosce molteplici eziologie (Rugarli, 1996).
Se in passato, infatti, è stata considerata una malattia puramente organica, oltre che nei suoi meccanismi anche nel suo determinismo, da tempo la componente psicologica dell’asma è ormai riconosciuta, ed anzi per un certo periodo è stata considerata il fattore eziologico predominante (Marcelli, 1997).
Attualmente si tende a considerare l’asma “una malattia complessa la cui interpretazione non è univoca, né dal punto di vista eziopatogenetico, in cui concorrono fattori organici, emotivi e ambientali, né per quanto riguarda i fattori psicodinamici implicati” (Ammaniti, 2001, p.329).
Studi recenti hanno dimostrato l’importanza dei processi allergici e di quelli infettivi all’origine del meccanismo di contrazione della muscolatura liscia bronchiale caratteristico delle crisi d’asma.
In età pediatrica, infatti, l’asma di tipo allergico è considerato il più comune e si innesca a contatto con un estrema varietà di allergeni, come polveri, animali domestici, cibi ecc.. Tuttavia, disturbi respiratori possono osservarsi anche al di fuori di ogni esposizione all’allergene e, viceversa, malgrado la presenza dell’allergene la crisi può non scatenarsi (Ammaniti, 2001).
Il ruolo svolto da circostanze e condizioni ben definite, come la presenza/assenza di un adulto significativo, nel determinare l’episodio asmatico mostra, infatti, quanto vari fattori emotivi e relazionali di tipo conflittuale siano implicati nell’innescare o favorire il manifestarsi della sintomatologia nei bambini.
In questo senso, l’asma bronchiale viene comunemente considerata un disturbo psicosomatico (Gaddini, 1970; Parietti, 1981), e il suo frequente insorgere nei primi tre anni di vita è associato da vari autori a processi di attaccamento, sintonizzazione affettiva madre-bambino e costruzione del Sé  difettosi (Ammaniti, 2001).
 “Non si può quindi considerare come univoco il processo di scatenamento della crisi d’asma: numerosi fattori sembrano suscettibili di agire; d’altra parte una volta iniziato il processo, si assiste ad una specie di “via finale comune”, essendo la reazione identica qualunque sia la sua eziologia (ereditaria, allergica, infettiva, psicogena)” (Marcelli, 1997, p.372) 
Sul piano dell’evoluzione clinica, infine, l’asma infantile comparsa entro i primi tre anni di vita, tende a regredire completamente in una elevata percentuale di casi (oltre il 60%) con l’inizio della pubertà. Meno buona è la prognosi per l’asma insorto in età adulta che, particolarmente quando ha carattere continuo o subcontinuo, può persistere nel tempo e complicarsi, talora con infezioni bronchiali. È in questo gruppo di pazienti che si ravvisa la maggiore mortalità indotta dalla malattia (Rugarli, 1996).

2. QUADRO CLINICO E PROCESSI FISIOPATOLOGICI

La manifestazione clinica caratteristica della sindrome asmatica è la dispnea prevalentemente espiratoria, di intensità variabile e, generalmente, ad esordio improvviso.
È comune, accanto ai sibili espiratori udibili, la presenza di una tosse scarsamente produttiva, con espettorazione di muco estremamente viscoso. In questi pazienti, la tosse rappresenta spesso un fenomeno riflesso conseguente alla stimolazione dei recettori irritativi bronchiali (Rugarli, 1996).
L’esame obiettivo durante una crisi asmatica, rivela un soggetto visibilmente sofferente, con un caratteristico decubito ortopnoico o semiortopnoico e, nei casi più gravi, una sudorazione profusa e cianosi labiale e ungueale.
Spesso, tuttavia, si resta colpiti dal contrasto fra l’intensità del disturbo e l’atteggiamento del bambino che può restare allegro e attivo e non manifestare, almeno apparentemente, alcuna forma di angoscia legata alla respirazione (Marcelli, 1997; Ammaniti, 2001).
L’attacco asmatico si presenta, generalmente, in forma di crisi di durata estremamente variabile, da alcuni minuti a diverse ore, seguite da intervalli liberi da sintomatologia. Meno comunemente, invece, l’asma può avere un carattere subcontinuo, senza che si abbia fra una crisi e l’altra un completo ritorno ad una situazione di normalità.
La condizione più grave, infine, è rappresentata dallo stato di male asmatico, in cui il paziente presenta per lunghi periodi, anche di giorni, intensi fenomeni broncospastici, spesso poco responsivi ai comuni presidi terapeutici. È in questa condizione che si può assistere, sia pure raramente, all’evoluzione più grave della malattia asmatica, che può esitare in una forma di insufficienza respiratoria fatale per il soggetto (Rugarli, 1996).
L’elemento fisiopatologico dominante nell’asma è rappresentato dalla ostruzione bronchiale, conseguente allo spasmo della muscolatura liscia ed eventualmente all’edema della mucosa ed alla stratificazione di muco sulle pareti bronchiali. Da un punto di vista funzionale si realizza, dunque, una tipica sindrome ostruttiva con aumento della resistenza delle vie aeree (Rugarli, 1996).
 La regolazione del tono della muscolatura liscia bronchiale è il risultato di un equilibrio dinamico tra influenze di natura neuroendocrina, alcune delle quali tendono a produrre contrazione delle cellule muscolari lisce che fanno parte della parete bronchiale, mentre altre ne determinano il rilasciamento. In particolare, nell’individuo normale il mantenimento del tono broncomotore dipende dal rapporto antagonistico tra sistema parasimpatico da un lato e sistema simpatico, coadiuvato in misura minore da alcune classi di prostaglandine dall’altro. Il sistema parasimpatico in condizioni normali esercita la maggior influenza sul tono della muscolatura bronchiale, attraverso la contrazione delle miocellule bronchiolari mediata dalle fibre vagali e dai recettori irritativi.
 I recettori irritativi bronchiali, in particolare, sono dotati di scarsa specificità, potendo essere stimolati da vari fattori di natura esogena (particelle inalate, agenti chimici) o endogena (diversi mediatori chimici). Questa varietà di stimolazioni può determinare, in via riflessa, nei recettori irritativi, oltre al fenomeno del broncospasmo, anche iperventilazione, tosse ed aumento della funzione mucosecernente, in relazione alla durata ed intensità dello stimolo (Rugarli, 1996).
Il sistema simpatico, come antagonista funzionale del sistema parasimpatico, è invece il principale responsabile del rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale. Questa attività ortosimpatica è legata alla presenza di recettori adrenergici di tipo b2 a livello delle cellule muscolari lisce. Anche alcune classi di prostaglandine, le PgE, inoltre, svolgono un importante funzione nel rilasciamento della muscolatura liscia bronchiale.
La perturbazione di questi delicati sistemi o l’eccessivo prevalere dell’uno sugli altri, può determinare il substrato patologico necessario affinché si determini la broncocostrizione caratteristica dell’asma (Rugarli, 1996).
Attualmente si ritiene che l’episodio asmatico si verifichi in risposta ad una varietà di stimoli fisici, chimici e biologici, e ad influenze di natura psicologica che, accanto a precise condizioni predisponenti, possono rendere le vie aeree iperreattive.
I principali fattori predisponenti sono di tipo neurovegetativo ed infiammatorio, e possono reciprocamente influenzarsi.
Uno squilibrio neurovegetativo nella regolazione del tono broncomotore, infatti, può tradursi in un esagerata funzione del sistema parasimpatico ad azione broncocostrittrice, dovuta ad una ridotta soglia di stimolazione da parte dei recettori irritativi bronchiali. Anche fattori di tipo infiammatorio, di frequente, possono determinare una iperreattività bronchiale a numerosi stimoli ambientali.
Accanto a questi fattori predisponenti hanno un ruolo essenziale tutti quei fattori ambientali capaci di dare reazioni allergiche (polveri, pollini ecc.), ed infine, specifici fattori emotivi e relazionali che possono favorire ed aggravare il manifestarsi della sintomatologia nel bambino.
Le componenti psichiche, in particolare, sembrano determinanti soprattutto in quei casi dove i sintomi asmatici compaiono in seguito a traumi affettivi e che mostrano un andamento caratteristico che risente di acutizzazioni cicliche in condizioni stereotipate particolari, non direttamente collegate all’aspetto allergenico.

3. IL BAMBINO ASMATICO: ASPETTI PSICODINAMICI ED INTERPERSONALI  

Il bambino asmatico viene comunemente descritto in letteratura come apparentemente molto docile, accondiscendente e remissivo, piuttosto dipendente dai caregivers e facilmente ansioso.
Nei bambini in cui l’asma compare nel secondo semestre di vita, inoltre, è frequente osservare una eccessiva socievolezza nei confronti degli estranei, nonostante siano in un periodo evolutivo in cui diffidenza e preoccupazione rappresentano reazioni normali a tutto ciò che non è familiare. Questo difetto nell’“angoscia dell’ottavo mese” (Spitz, 1965) è stato associato sia a condizioni di maternage difettose, insicure o discontinue, sia ad un ambiente familiare iperprotettivo e invadente (Marcelli, 1997; Ammaniti, 2001).
Tali osservazioni hanno condotto vari autori a dare rilievo ad alcuni meccanismi psicodinamici essenziali nel rapporto fra il bambino asmatico ed il suo ambiente familiare.
La crisi d’asma, infatti, esprimerebbe la profonda ambivalenza del bambino fra la ricerca di autonomia ed individuazione, e la paura di perdere l’amore della madre, con la quale desidera creare un rapporto d’oggetto “arcaico e fusionale” (Fenichel, 1964).
In un periodo in cui le capacità verbali e cognitive sono ancora limitate, il corpo diventa allora il mezzo di espressione privilegiato attraverso cui il bambino rappresenta ed esteriorizza i suoi vissuti di angoscia e distacco, ed in cui il dolore emotivo può manifestarsi come “dolore nel corpo” (Ammaniti, 2001).
 Fenichel (1964) suggerisce l’idea cha l’asmatico durante le crisi, più che l’ossigeno, tenti di “introiettare la respirazione”, quasi a realizzare il desiderio di interrompere gli scambi che ha con l’esterno, vissuti come limitanti la propria autonomia e libertà.
Kreisler et al. (1974) hanno parlato, invece, di “sovraccarico del rapporto duale” in cui, alla presenza eccessiva e “soffocante” della madre, il bambino risponde con i sintomi asmatici, ovvero la rappresentazione somatica della sua “fame d’aria”.
L’eccessivo bisogno di dipendenza dalla madre vissuto in modo ambivalente, accanto all’utilizzo di modalità psichiche di tipo regressivo ed inibitorio, dovute alla presenza di problematiche riguardanti i processi di separazione/individuazione, sono allora gli elementi psicodinamici fondanti il quadro clinico dell’asma in età infantile.
 È interessante notare come lo stesso Freud, in “Frammenti di un analisi d’isteria: Dora” (1901), consideri l’asma di Dora, che insorge dopo la partenza del padre, come una sorta di “protesta narcisistica” elaborata attraverso meccanismi di difesa regressivi, espressione di un profondo desiderio di passività e dipendenza.
Questo bisogno estremo di attaccamento e la continua ambivalenza fra autonomia/dipendenza, inoltre, sono spesso associati nel bambino asmatico ad una inibizione delle proprie emozioni e ad una profonda difficoltà nella gestione dell’aggressività, che non viene espressa ma occultata da un atteggiamento sempre accondiscendente e remissivo.
In questo senso, Pinkus (1980) hanno parlato di un rigido controllo dell’affettività e dell’aggressività che confluiscono nella tendenza di questi bambini ad adattarsi in modo conformistico alle regole del proprio contesto sociale.
La crisi d’asma allora, in un ambiente familiare iperprotettivo ed invadente, può avere per il bambino la funzione di scaricare la sua aggressività, seppure attraverso una sua “espressione” passiva e somatica, mentre in contesti più trascuranti ed insicuri, la crisi asmatica può trasformarsi in strumento di manipolazione del rapporto con i caregivers, al fine di attirarne l’attenzione ed assicurarsi i “benefici secondari” del disagio.
Le ricerche più recenti hanno investigato, in particolare, le difficoltà nella regolazione delle emozioni nei bambini asmatici, accanto agli effetti negativi della gestione della malattia, in termini di maggiore stress psicosociale, ansia e bassa autostima.
Penza-Clyve (2000) ha esaminato i pattern di gestione emozionale della malattia in 20 bambini con asma e 20 con diabete, dai 6 ai 14 anni, rispetto ad un campione di controllo di bambini sani.
Dai risultati è emerso che i bambini asmatici e quelli diabetici mostrano un inibizione delle emozioni negative, quali rabbia, tristezza e aggressività, significativamente maggiore rispetto ai bambini non affetti da queste patologie.
I due gruppi di bambini affetti rispettivamente da asma e diabete, inoltre, hanno maggiori difficoltà nella gestione emotiva delle proprie decisioni e comportamenti, accanto ad un utilizzo di strategie di regolazione delle emozioni spesso disfunzionale rispetto alle richieste ambientali.
Le difficoltà nella regolazione delle proprie emozioni è stata evidenziata anche da una recente ricerca di Klinnert et al. (2000), su 81 bambini asmatici di 6 anni, da cui inoltre è emerso che la severità della sintomatologia asmatica era associata all’aumento delle difficoltà emotive e del livello di ansia dei bambini.
Vila et al. (2000) hanno invece studiato, in un campione di 82 bambini e adolescenti tra gli 8 e 15 anni con un asma moderata o grave, la frequenza di difficoltà psicologiche associate alla malattia. Oltre ad ansia generalizzata il gruppo di soggetti asmatici presentava in proporzione maggiore rispetto al gruppo di controllo, anche disturbi affettivi, bassa autostima e peggiori competenze sociali.
Particolarmente interessante, infine, risulta la ricerca di Kong et al. (2001) che ha indagato la qualità della vita di 84 bambini cinesi tra i 4 e gli 11 anni con asma, rispetto ad un campione di controllo di bambini sani, bilanciato per sesso, età e livello di educazione.
La maggior presenza nel campione dei bambini asmatici di comportamenti regressivi, ansia, depressione, problemi fisici, ritiro sociale e somatizzazioni, secondo gli autori, è associata nel vissuto dei bambini ad un livello di qualità della vita sensibilmente più basso rispetto ai coetanei sani.

3.1 LA FAMIGLIA “ASMOGENA”

I meccanismi psicodinamici cui si è fatto riferimento, ci consentono a questo punto di comprendere i possibili significati relazionali della sintomatologia asmatica, nei termini di una comunicazione “particolare”, che influenza ed organizza i rapporti entro la famiglia e nel contesto sociale.
L’intensità, la gravità, la durata e l’evoluzione delle crisi asmatiche, ma anche la frequenza delle recidive, infatti, confrontano i caregivers con elevati livelli di stress protratto nel tempo, frustrazione, limitazioni ed angoscia che possono incidere notevolmente sulla serenità del clima familiare.
Pinkus (1980) hanno proposto che le crisi asmatiche siano funzionali ad un gioco latentemente sado-masochista in cui il bambino, attraverso il ruolo di “vittima”, può esprimere la propria aggressività condizionando i comportamenti dei familiari e giocando sui sensi di colpa vissuti, spesso in modo inconscio, dai genitori.
La madre del bambino asmatico viene spesso descritta come una persona “ipernormale” (Marcelli, 1997) ed eccessivamente conformista, che vive il rapporto con il figlio in maniera fredda e distaccata o troppo invischiata ed iperprotettiva. Non è raro che i soli scambi affettivi fra madre e bambino avvengano intorno alla malattia (Buetow et al., 2003).
“L’ambiente familiare darebbe allora valore di comunicazione alla crisi d’asma allo stesso modo in cui lo si dà ai pianti abituali del bambino normale” (Marcelli, 1997, p.373).
Secondo vari autori, infatti, l’asma rappresenta la trasformazione somatica di una crisi di pianto inibita o repressa (Franceschi Dusi, 1991).
Frequente in questi contesti familiari sarebbe la poca attenzione dei caregivers alle richieste del figlio ed alle sue istanze di crescita ed individuazione. I bambini asmatici, come emerso da una recente ricerca (Griffin et al., 2002), sono maggiormente coinvolti ed invischiati nelle conversazioni e nei conflitti fra i genitori, rispetto ai loro coetanei sani.
Spesso, quindi, sono ambienti familiari che soffocano o inibiscono l’autonomia del bambino ed in cui il suo sintomo asmatico sembra voler dire, attraverso il corpo, “mi manca l’aria”, “tira una brutta aria”, “questa aria non fa per me” (Franceschi Dusi, 1991).
Nel sintomo asmatico e nella relazione di cura che si stabilisce intorno ad esso, troverebbe allora un possibile sfogo sia l’ambivalenza emozionale del bambino fra autonomia e dipendenza, sia i sentimenti conflittuali dei caregivers, che comprendono sensi di colpa, rifiuto e controllo nei confronti del figlio.  
La ricerca di Penza-Clyve (2000), a cui si è già fatto riferimento, ha rilevato che le madri dei bambini asmatici mostrano una minore espressione delle emozioni, rispetto alle madri dei diabetici e dei bambini sani, suggerendo che questi gruppi possono avere una differente motivazione nella gestione dell’espressione emotiva. In particolare, la limitata espressione delle emozioni nelle madri e nei bambini asmatici potrebbe essere dovuta al tentativo di prevenire i sintomi della malattia, evitando situazioni “cariche” emotivamente.
Vari autori a riguardo hanno proposto “una possibile carenza materna nel promuovere nel bambino le funzioni psichiche di rappresentazione, la regolazione delle emozioni e lo sviluppo di un sé corporeo, come mezzo di relazione interpersonale e sociale (Ammaniti, 2001, p.332).
Secondo Pasini (1982) la mancata integrazione ed individuazione corporea ed emozionale del bambino asmatico può essere funzionale ad una strategia tesa ad evitare il distacco da parte della madre, che vivrebbe la separazione in modo drammatizzato e depressivo.
La qualità della relazione fra madre e figlio asmatico, come è stato rilevato da una recente ricerca (Bleil et al., 2000), influenza inoltre il possibile sviluppo di sintomi depressivi nel bambino. La relazione di attaccamento (sicura o insicura) più che la severità dell’asma, rappresenta infatti un fattore predittivo di eventuali disturbi affettivi nel bambino asmatico.
L’ambiente familiare, peraltro, vista la sua profonda influenza su vari aspetti della malattia,  può diventare, come vedremo più avanti, una risorsa essenziale nel trattamento del bambino asmatico.

4. PROPOSTE DI INTERVENTO

Possiamo a questo punto delineare il ruolo dello psicologo nel trattamento dell’asma in età pediatrica. Se consideriamo, infatti, l’influenza che i fattori emotivi hanno nel favorire ed aggravare le crisi, gli effetti psicologici a lungo termine della gestione della malattia, come anche la bassa compliance che si registra nel trattamento, appare evidente l’ampiezza delle possibilità di intervento psicologico nell’ambito della patologia asmatica.
È importante, peraltro, che lo psicologo definisca coerentemente un suo spazio di intervento in sinergia a quello del pediatra, nella gestione di una patologia così complessa quale l’asma infantile, che richiede la partecipazione attiva di più soggetti accanto al bambino affetto dalla malattia.
Un intervento su più livelli, che coinvolge il bambino malato, il pediatra che prescrive la terapia, i genitori responsabili della corretta gestione terapeutica,  e gli insegnanti nell’ambiente scolastico, infatti, richiede allo psicologo specifiche competenze cliniche ed organizzative, che comprendono:
§         la capacità di integrare gli aspetti emotivi con quelli tecnici e medici del trattamento;
§         offrire consulenza e supporto al bambino asmatico e alla famiglia;
§         coordinare e regolare le comunicazioni fra i vari livelli coinvolti (famiglia, scuola, contesto medico);
§          pianificare e programmare strategie di intervento che coinvolgano attivamente i vari soggetti vicini al bambino asmatico.

Convivere con un disturbo cronico produce un impatto emotivo in genere considerevole per il bambino e la sua famiglia, in termini di angoscia, frustrazione e sensi di colpa, che a lungo andare possono logorare le relazioni familiari (Gustafsson et al., 2002). L’Asma del bambino, inoltre, produce effetti evidenti anche nel più ampio contesto sociale, con le limitazioni nelle abitudini di vita e nello sport, l’iperprotezione dei genitori, le frequenti difficoltà scolastiche, accanto ai vissuti di “diversità” rispetto ai coetanei.
Programmare un intervento sul bambino asmatico significa allora, per lo psicologo, aiutare il piccolo paziente ad elaborare il fardello emotivo e le difficoltà derivanti dalla gestione del disturbo cronico. È importante offrire al bambino la possibilità di pensare e raccontare le sue relazioni interpersonali e i vissuti associati all’asma. L’ obiettivo è quello di far sviluppare al bambino una più matura capacità di gestione cognitiva ed emotiva della sua malattia.
Ansia generalizzata, forte inibizione delle emozioni, in particolare dell’aggressività e somatizzazioni (Ortega et al., 2002), peraltro, possono complicare il quadro clinico ed indurre lo psicologo a pianificare, in collaborazione con il pediatra, eventuali interventi terapeutici specifici in relazione al caso. La letteratura riporta, a riguardo, risultati positivi ottenuti attraverso tecniche cognitivo-comportamentali, terapie dinamiche e sistemico relazionali Panton et al., 2000), come anche mediante metodi di rilassamento quali il training autogeno o il biofeedback (Franceschi Dusi, 1991).
Lo psicologo, inoltre, ha un ruolo essenziale, accanto al pediatra, nella fase di informazione e di educazione rivolta al bambino asmatico e alla sua famiglia, sulle caratteristiche della malattia e sui possibili rischi e benefici dell’intervento.
In campo medico, l’educazione del paziente viene definita come un processo pianificato di apprendimento di informazioni e comportamenti, che consente all’individuo di prendere attivamente decisioni riguardanti problemi connessi con la propria salute. L’apporto specifico che la competenza psicologica può offrire in questa fase riguarda, in particolare, l’attenzione agli aspetti emotivi, motivazionali e relazionali del paziente e del suo contesto familiare.
Uno degli aspetti più critici nel trattamento dell’asma è, infatti, la bassa compliance che si registra, con solo il 48% dei pazienti che seguono le prescrizioni mediche. In questi casi un efficace collaborazione fra pediatra e psicologo può favorire una ri-negoziazione di obiettivi e modalità di intervento che coinvolgano in maniera più attiva il bambino e la sua famiglia. In particolare, pediatra e psicologo devono stabilire un patto di alleanza con il bambino e i suoi genitori, che consideri i possibili conflitti ed ostacoli che possono portare al fallimento di prevenzione e terapia, e ponga il paziente come protagonista attivo nella gestione della propria salute.
L’influenza che la conoscenza della malattia ha sul suo trattamento è stata rilevata da Russell (2001). Dal suo studio è emersa una relazione statisticamente significativa tra la severità dell’asma e le strategie di gestione della malattia (r =.23, p < .05). Le “credenze sull’asma” dei bambini, inoltre, rappresentano la variabile con maggior potere predittivo riguardo la gestione della malattia (r = .55, p < .05). Questi risultati suggeriscono l’importanza che la conoscenza e le credenze dei bambini hanno sulla gestione dell’asma e sulla sua severità.   
Nel caso il paziente sia molto piccolo, con un asma insorto nel secondo semestre di vita, l’intervento dello psicologo sarà rivolto in particolare alla famiglia. Esplorare i possibili conflitti fra i coniugi, accogliere i loro vissuti relativi alla malattia del bambino ed attivare possibili risorse e strategie di coping per far fronte alla situazione, diventano in questo caso gli obiettivi essenziali (McQuaid et al., 2002).
Numerose ricerche recenti, peraltro, hanno evidenziato come la famiglia del bambino asmatico rappresenti la risorsa essenziale nel trattamento.
Johnson et al. (2002), ad esempio, hanno rilevato una migliore prevenzione e trattamento dell’asma in famiglie addestrate all’utilizzo di precise strategie di gestione della malattia. Queste ultime comprendevano, in particolare, il monitoraggio dei picchi di flusso respiratorio del bambino accanto alla considerazione di quei fattori ambientali (conflitti familiari, scarso supporto ed espressione delle emozioni, demotivazione del paziente ecc.) che possono ostacolare la cura.
L’importanza dei fattori psicosociali nella gestione dell’asma è stata rilevata anche da De Los Santos-Roig et al. (2002), che hanno proposto una metodologia fondata sulla conoscenza della malattia da parte del bambino e dei genitori, sul controllo delle emozioni attraverso tecniche di rilassamento e respirazione ed, infine, sull’acquisizione di comportamenti atti a prevenire le crisi d’asma. Dall’intervento è risultata una diminuzione nella frequenza e nell’intensità degli attacchi ed un miglioramento dei picchi del flusso espiratorio, accanto ad una più consapevole ed accurata conoscenza della malattia.
Vorremmo, infine, segnalare due recenti studi (Fiese, Wamboldt, 2000; Markson, Fiese, 2000) che hanno esaminato l’importanza delle routine e dei rituali familiari nella gestione dell’asma nei bambini. Secondo gli autori le routine familiari giocano, infatti, un ruolo importante nel minimizzare il peso della gestione dell’asma, sono associate a più bassi livelli di ansia nel bambino, possono proteggere i membri della famiglia dallo stress associato con la malattia cronica e andrebbero, pertanto, incluse entro un piano di gestione del disagio.
Nell’ambito di un intervento sull’asma che coinvolge più livelli merita certamente di essere incluso anche il gruppo dei pari con un problema simile. Il bambino asmatico, infatti, può trovare, nel rapporto con coetanei affetti dallo stesso disturbo, un importante fonte di sostegno, di esplorazione e condivisione di vissuti, scambio di informazioni e consigli, identificazione e responsabilizzazione nei confronti della propria e dell’altrui cura.
Il gruppo dei pari può essere allora un contesto adatto a progettare nuove strategie di adattamento, con l’aiuto degli altri, ma anche un momento di gioco in cui imparare nuove abitudini e conoscere meglio la malattia.
Si è cercato di delineare, seppure a grandi linee, i possibili spazi, obiettivi e referenti dell’intervento psicologico nella patologia asmatica. Si tratta per altro di riconoscere queste opportunità e valorizzarle, in modo da creare un rapporto più stabile e legittimato fra domanda del contesto sociale ed offerta di competenze psicologiche. Nell’area della patologia in età infantile, diventa allora essenziale per lo psicologo definire più coerenti modelli di collaborazione con altre figure professionali, in particolare con il pediatra, come presupposto per un lavoro integrato su più livelli della malattia.

Bibliografia

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lunedì 6 giugno 2011

“PENSARE IL PROPRIO FUTURO” UN PROGETTO DI INTERVENTO RIVOLTO ALLE CLASSI TERZE DELLA SCUOLA MEDIA STATALE


Introduzione.

Orientare significa “produrre conoscenza”, porre il ragazzo in grado di prendere coscienza di sé e della realtà che lo circonda, per effettuare scelte consapevoli, autonome, efficaci e congruenti con il proprio contesto. Nella prospettiva che vi proponiamo l’orientamento rappresenta un’azione con finalità maturativa che faciliti la capacità di auto-orientarsi, a partire da vincoli e risorse della situazione attuale. Con tale processo intendiamo favorire la maturazione e lo sviluppo delle competenze necessarie al ragazzo per acquisire autonomia nel definire obiettivi personali e professionali realistici, elaborando un progetto di vita a lui più congeniale.
Una simile finalità maturativa si declina, nello specifico, attraverso una serie di obiettivi quali:
·        Individuare le competenze possedute e quelle che possono essere acquisite o incrementate, laddove per competenze intendiamo non solo quelle tecniche ma anche di tipo relazionale e trasversale;
·        Tradurre il pensiero in comportamento, sperimentandosi nella costruzione di  progetti personali realistici e continuamente verificabili, basati sullo sviluppo delle proprie capacità e abilità;
·        Rendere pensabile il proprio futuro, ovvero accompagnare i ragazzi nel difficile compito di individuare dei percorsi consapevoli, di elaborare strategie, compiere scelte, valutare alternative.


 Il nostro interesse si muove, dunque, verso l’esplorazione e la comprensione delle rappresentazioni e delle strategie che il ragazzo formula e modifica nel tempo per attribuire significati all’ambiente esterno ed al proprio ruolo.
È facile osservare, infatti, quanto i ragazzi siano spesso concentrati sul presente, mostrandosi “impacciati”, o con qualche difficoltà, rispetto alla possibilità di pensarsi realisticamente nel futuro. In questo senso, l’orientamento si arricchisce di concetti quali soggettività, attivazione, trasformazione e progettualità, capaci di tener conto di fattori non solo individuali ma anche di ordine sociale e situazionale.  
Il focus di tale processo, pertanto, è sulla relazione fra mondo interno del ragazzo, le sue aspettative e desideri, e mondo esterno, la sua realtà contestuale.
La scuola può rappresentare il luogo entro cui è possibile ancorare le fantasie alla realtà. Il lavoro di orientamento si propone, quindi, di dare senso all’esperienza scolastica, superando i limiti della riuscita fine a se stessa, per stabilire legami fra opportunità del contesto e attitudini e aspirazioni dei ragazzi.
Le ragioni metodologiche che suggeriscono l’utilizzo del gruppo-classe come referente e promotore di un percorso all’orientamento sono molteplici. In primo luogo, la classe rappresenta un contesto condiviso e familiare ai ragazzi che può sollecitare la conoscenza, la riflessione, l’attivazione e la maturazione delle risorse personali. L’omogeneità del gruppo, in termini di età, esperienze e problematiche favorisce in ciascuno la consapevolezza di non essere solo di fronte alle incertezze del proprio percorso evolutivo. Nel gruppo, inoltre, se si realizza un contesto non valutativo e adeguatamente protetto, i ragazzi hanno non solo l’opportunità di accrescere la conoscenza di sé in relazione al proprio ambiente, ma anche un’occasione di appropriazione di nuove modalità di relazione con la realtà, innescando la premessa per possibili cambiamenti. 
In quest’ottica, la dimensione di gruppo consente un progressivo spostamento dell’unità di analisi dal singolo alla relazione che l’individuo stabilisce con il suo ambiente di riferimento. Non si tratta, dunque, di valutare i singoli ragazzi attraverso l’impiego di strumenti psicometrici (test o questionari psico-attitudinali) quanto di attivare un processo di riflessione e orientamento alla scelta che trovi nel gruppo la principale risorsa esperienziale. Il lavoro in gruppo consente ai ragazzi di “porsi delle domande”, attivando un percorso di indagine e ricerca su loro stessi e sulle proprie potenzialità, piuttosto che aspettare passivamente le risposte e le valutazioni offerte dall’esperto, spesso poco aderenti alla realtà.
Questa funzione di accompagnamento alla scelta svolta con i ragazzi, attraverso un percorso di motivazione e scoperta delle proprie capacità, più in generale consente di attivare un’azione preventiva rispetto ad eventuali situazioni di disagio e dispersione scolastica futura.
Da questo punto di vista un intervento sull’orientamento in uscita dalla scuola media statale dovrebbe proporsi di raggiunge alcuni obiettivi specifici, tesi da un lato a conoscere ed esplorare le forze in gioco presenti nel contesto istituzionale e sociale di riferimento dei ragazzi, dall’altro a promuovere la capacità del soggetto di autodeterminarsi quale attore del suo progetto di vita.
Si può pensare così ad un percorso articolato in vari passaggi:
·        Riconoscersi la possibilità di desiderare, avere aspirazioni, sogni e ambizioni, da poter condividere con il gruppo-classe;
·        Sviluppare competenze di analisi e descrizione del sé, costruendo spazi di riflessione sulle capacità e le risorse personali possedute da ciascuno e sulle aree di interesse, attuali e future;
·        Incrementare quel bagaglio di strumenti relativo all’elaborazione di scelte, alle capacità decisionali e di problem solving, rafforzando il senso di fiducia e di autoefficacia personale dei ragazzi rispetto alle proprie possibilità realizzative;
·        Saper leggere e decodificare limiti e opportunità del contesto di appartenenza in relazione a se stessi, alle proprie aspettative, attitudini e conoscenze;
·        Pensare al proprio futuro, ovvero riuscire ad individuare degli obiettivi che non siano solo desiderabili, ma anche realizzabili entro la progettazione di un percorso personale coerente;
·        Sollecitare lo sviluppo di alcune competenze trasversali: la capacità di comunicare più efficacemente con gli altri; di lavorare in gruppo per affrontare problemi e produrre risultati collettivi; di individuare risorse e raccogliere informazioni utili.

In questo senso, intendiamo muoverci su un doppio livello di lavoro, da un lato la centralità della persona, delle sue abilità e aspirazioni, dall’altro le modalità di relazione con il suo contesto, in termini di ricerca di opportunità e considerazione dei vincoli.

Metodologia dell’intervento.
Si può pensare ad una metodologia di tipo interattivo, con lo scopo di rendere i partecipanti dei soggetti-attivi del processo conoscitivo che avviene nel lavoro di gruppo. Le attività proposte riguarderanno, come già specificato, un doppio livello processuale, da un lato teso all’esplorazione delle attitudini e potenzialità dei ragazzi e, dall’altro, ad un ancoraggio di queste al contesto socio-culturale di riferimento.
La scoperta delle potenzialità e dei desideri dei ragazzi avverrà attraverso strumenti esperienziali, come ad esempio:
·        Un lavoro di ricerca e di sperimentazione sui diversi tipi di intelligenza (verbale, logico-matematica, sociale, musicale, spaziale, ecc.) finalizzato ad individuare i punti di forza e le potenzialità di ciascun ragazzo, attraverso giochi di ruolo e tecniche creative;
·        La definizione e rappresentazione per immagini, attraverso dei collage personali, delle proprie competenze, capacità e desideri, finalizzato ad attivare una riflessione condivisa in cui ogni ragazzo possa confrontare gli aspetti di utopia (sogni “troppo grandi”) e stemperare i propri vissuti d’impotenza (sogni “troppo piccoli”), come importante crocevia per la costruzione di un progetto professionale;
·        Il sogno lavorativo, che consente di valorizzare la dimensione emotiva, proiettandosi nel futuro ed esprimendo alcuni desideri ed aspettative lavorative, che verranno poi confrontate con i risultati del lavoro di collage.

La seconda parte del lavoro, relativa all’esplorazione delle risorse e dei vincoli del proprio contesto di riferimento avverrà attraverso:
·        Il reperimento di informazioni e conoscenze relative all’ambiente di appartenenza, attraverso un lavoro di ricerca (su internet, riviste, ecc.) operato dai ragazzi organizzati in piccoli gruppi;
·        La costruzione e la raccolta di interviste a persone-chiave (studenti, lavoratori) reperiti all’interno della rete di conoscenze informali dei ragazzi, orientate a conoscere gli aspetti salienti di certi profili professionali o formativi futuri a partire dall’esperienza di coloro che hanno già “percorso quelle strade”;
·        Un confronto in plenaria con un esperto di una agenzia di orientamento, che presenterà alle classi le attività e le funzioni svolte da questi servizi.