sabato 30 luglio 2011

Il controtransfert nella terapia familiare con adolescenti

1.Alcune note introduttive


Questo lavoro ci ha appassionato molto, è stato teatro di un vivace confronto in cui abbiamo condiviso dubbi, emozioni e a volte anche dinamiche personali.
Shapiro si chiedeva: “Perché le famiglie suscitano nei loro terapeuti emozioni tanto intense?”. Non vogliamo rispondere adesso e con una frase riduttiva a questo interrogativo ma speriamo di averlo fatto nel corso del testo.
Per coloro che non seguono terapie familiari potranno comunque fare tesoro di questo lavoro nel vedere con un occhio diverso il “familiare” che c’è in ogni loro paziente individuale.
Con questo lavoro ci proponiamo di approfondire ciò che caratterizza le reazioni controtransferali del/dei terapeuti nella terapia familiare ad orientamento psicodinamico. In questo senso, oltre alla descrizione dei fenomeni controtransferali, abbiamo ritenuto importante soffermarci sui loro possibili utilizzi nel corso della terapia, in linea peraltro con le attuali teorizzazioni presenti in letteratura.  Alcune parti del nostro lavoro, in particolare, quelle relative ai modelli di funzionamento mentale della famiglia e all’identificazione proiettiva hanno, così, la precisa funzione di facilitare la comprensione dell’argomento centrale del nostro interesse. 
 

2. Il controtransfert: aspetti generali


Il controtransfert può essere definito come le reazioni inconsce dell’analista alla persona dell’analizzato e più in particolare al suo transfert (Laplanche e Pontalis, 1967). Questo concetto che adesso ci sembra ovvio e che viene tanto utilizzato da psicoanalisti e non, in realtà non ha avuto una facile evoluzione bensì nella storia del pensiero psicoanalitico è andato incontro a varie concettualizzazioni. Inizialmente era considerato da Freud come un intralcio al trattamento in quanto, secondo l’autore, il paziente suscitava nell’analista sentimenti e atteggiamenti derivanti da problematiche non risolte dall’analista. Nel 1910 per la prima volta nel testo “Prospettive future della terapia psicoanalitica” l’autore scrive: “abbiamo acquisito la consapevolezza del controtransfert che insorge nel medico per l’influsso del paziente sui suoi sentimenti inconsci, e non siamo lungi dal pretendere che il medico debba riconoscere in se questo controtransfert e padroneggiarlo…abbiamo notato che ogni psicoanalista procede esattamente fin dove glielo consentono i suoi complessi e le sue resistenze”. In questo contesto il controtransfert è considerato principalmente come ostacolo che deve venire eliminato ed è definito solo in funzione del paziente. Viene, quindi, ritenuto come una risposta endopsichica che rende difficile cogliere gli aspetti inconsci del paziente (Giannakoulas e Fizzarotti Selvaggi, 2002).
La nozione del controtransfert come interferenza alla comprensione e al progresso dell’analisi, rimarrà centrale nel pensiero di Freud che però nel 1912 in ”Consigli al medico nel trattamento psicoanalitico” scrive anche che l’analista “deve rivolgere il proprio inconscio come un organo ricevente verso l’inconscio del malato che trasmette”. In questo articolo, Freud, ribadisce che le rimozioni dell’analista determinano ”macchie cieche” nella percezione analitica, difficoltà legate al passaggio delle percezioni inconsce alla coscienza. Si può constatare che da questi suoi due passaggi fondamentali, del 1910 e del 1912, nascono le due visioni contrapposte del controtransfert: come ostacolo e come mezzo fondamentale per una comprensione profonda del pensiero dell’altro (Giannakoulas e Fizzarotti Selvaggi, 2002).
Alcuni autori tra cui Glover, Fliess e Reich (anni ’40-’50) (in Albarella e Donadio, 1998) condividono una definizione del controtransfert limitata e specifica e come Freud, sottolineano il carattere di impedimento del controtransfert.
Soltanto negli anni ’50 si verifica una riscoperta e una visione positiva del controtransfert e in pochi anni la letteratura analitica si arricchisce di importanti contribuiti. La Heimman nel 1950 ampliò il concetto di controtransfert per comprendere l’uso dei sentimenti dell’analista quale fonte di informazione sul paziente in virtù di questo il controstransfert si estende a tutti i sentimenti che l’analista sperimenta nei confronti del paziente. Il controtransfert può rappresentare non solo una reazione dell’analista nei confronti del paziente ma anche il modo con cui l’analista sperimenta direttamente dentro di se l’operare di parte della personalità del paziente. Le emozioni suscitate nell’analista, dall’impatto col paziente, sono spesso molto “più vicine al nocciolo del problema” di quanto non lo sia il suo ragionare. La risposta immediata emotiva dell’analista sarebbe perciò, un indicatore assai rapido e sensibile dei processi inconsci del paziente e la premessa per interpretazioni efficaci e concrete. 
Winnicott (1949) nel suo lavoro con pazienti psicotici e con gravi disturbi della personalità, evidenziò una diversa forma del controtransfert intesa come una reazione naturale al comportamento irritante del paziente. Secondo l’autore, il lavoro con questo tipo di pazienti diventa impossibile qualora i sentimenti che l’analista prova non siano perfettamente riconosciuti e coscienti. La presenza di questi sentimenti non solo non viene considerata come un ostacolo all’analisi ma anzi come qualcosa di utile e in certi momenti indispensabile per il processo analitico. Inoltre, secondo Winnicott (1947) tali sentimenti di rifiuto e di odio dell’analista non solo devono essere riconosciuti per padroneggiarli ma comunicati al paziente per una maggiore presa di coscienza di se stesso e afferma che “in certe fasi di certe analisi, l’odio dell’analista è effettivamente richiesto dal paziente, e diventa necessario un odio che sia oggettivo. Se il paziente cerca un odio oggettivo e giustificato, bisogna che possa ottenerlo, altrimenti non potrà sentire che può ricevere un amore oggettivo” (Winnicott, 1947, p. 235)
Kenberg (1965) definisce il controtransfert come la conscia, appropriata e completa reazione emotiva del terapeuta al paziente.
Gabbard (1994) considera il controtransfert come strumento diagnostico e terapeutico, una “sorgente” fondamentale di informazioni per la comprensione del mondo interno del paziente.
Interessante risulta la recente disamina critica del concetto di controtransfert proposta  da Eagle (2000). L’autore distingue tra una versione debole ed una forte della definizione di controtransfert. Entrambe le versioni intendono proporre una critica all’idea dell’analista come schermo bianco, tuttavia, nella prima le associazioni, i pensieri, i sentimenti del terapeuta possono, in determinate circostanze, fornire importanti indizi su ciò che sta avvenendo nel paziente o nell’interazione tra paziente e terapeuta. La versione forte sottolinea, invece, come tali associazioni, pensieri e sentimenti rivelerebbero necessariamente i contenuti mentali inconsci del paziente. Tesi principale dell’autore è che “in modo piuttosto ironico, nella loro reazione contro il modello dello schermo bianco della situazione analitica e presumibilmente nella loro concettualizzazione della relazione terapeutica come processo interattivo bipersonale, molti teorici psicoanalitici contemporanei, proprio come temeva Gill (1994), hanno finito per produrre una versione nuova e più sottile dell’analista come schermo bianco e una versione nuova della psicologia unipersonale” (Eagle, 2000, p.28). Il rischio è che, considerando i sentimenti dell’analista come qualcosa che necessariamente è stato messo dentro dal paziente, si finisce per non riconoscere il contributo offerto dalla personalità dell’analista stesso (Gill, 1994). 
Bonaminio e Di Renzo (2003) sono infine interessati alla visione del controtransfert come lavoro svolto dall’altro (analista) per il paziente; citando in particolare Bollas (1987) parlano, infatti, di uso evocativo o espressivo del controtransfert intendendo il lavoro dell’analista intorno al paziente, ai suoi sentimenti, alle sue emozioni non ancora pensabili e rappresentabili


3. La famiglia come apparato psichico gruppale


Zinner e Shapiro (1999, pg.66) considerano “la famiglia come un piccolo gruppo e, in modo più metaforico, come il cast di un dramma, i cui temi sono una sorta di combinazione dei compiti del “lavoro” adattivo e funzionale della famiglia con una serie di fantasie in genere inconsce, o di assunti nascosti, spesso concepiti come un “programma segreto””.
In questa definizione appare rilevante, ai fini della nostra discussione, il riferimento ad una dimensione inconscia del funzionamento familiare, fatta di fantasie condivise, desideri e relative difese attraverso cui la famiglia, come “entità psichica unitaria” (Zinner, Shapiro, 1999), si confronta con ciò che sta ai propri confini. Il tema dei confini, peraltro, ci sembra un utile chiave di lettura non solo dei modi di funzionare della famiglia ma anche dei suoi rapporti con l’altro esterno, nello specifico, il terapeuta. Zinner e Shapiro (1999) utilizzano, infatti, il concetto di confine per spiegare le relazioni fra le parti di un sistema e del sistema con l’esterno, giungendo così a formulare specifici modelli di transazione fra confini. Con il termine delineazione, in particolare, gli autori (1999) fanno riferimento a quei comportamenti attraverso cui i componenti di una famiglia comunicano, in modo esplicito o implicito, le proprie percezioni e atteggiamenti, quindi la propria rappresentazione mentale su un membro della famiglia, a questa persona.
L’immagine dell’altro, oggetto della delineazione, sembra essere determinata in prevalenza dalla mobilitazione di specifici conflitti e difese nella persona del delineatore. Zinner e Shapiro (1999) sottolineano come queste delineazioni difensive sono spesso attive nel rapporto fra genitori e figli adolescenti. “Quando le delineazioni genitoriali risultano distorte, stereotipate, iperspecifiche, contraddittorie o in altro modo incongruenti con la gamma dei comportamenti manifestati dall’adolescente, traiamo l’inferenza che queste delineazioni siano al servizio di aspetti difensivi del funzionamento della personalità dei genitori” (Zinner e Shapiro, 1999, pag.47).
Il bambino o l’adolescente oggetto delle delineazioni genitoriale può, in questo senso, assumere un ruolo complementare alle esigenze difensive dei genitori. Le delineazioni difensive rappresentano, infatti, determinanti dinamiche dell’attribuzione dei ruoli nel contesto familiare (Zinner e Shapiro, 1999).
Il meccanismo predominante alla base delle delineazioni difensive è chiaramente l’identificazione proiettiva, attraverso cui i membri della famiglia scindono aspetti di sé rifiutati o prediletti proiettandoli su altri componenti familiari. La natura del materiale proiettato, nella relazione fra genitori e adolescente, secondo Zinner e Shapiro (1999) contiene in prevalenza elementi conflittuali della relazione oggettuale dei genitori con le loro famiglie di origine. “Queste proiezioni governano la percezione ed il comportamento reciproci dei membri della famiglia quando il gruppo familiare è dominato da fantasie inconsce” (Zinner e Shapiro, 1999, pag.91). Vista l’importanza, nell’ambito del nostro discorso, del concetto di identificazione proiettiva, questo verrà approfondito più avanti. In questa parte del lavoro ci interessa, invece, sottolineare come, secondo Zinner e Shapiro (1999), quando la famiglia si trova in situazioni conflittuali, di particolare angoscia e con un uso predominante delle delineazioni difensive, si possono osservare interessanti analogie con il comportamento del piccolo gruppo dominato dagli assunti di base.
Secondo l’approccio gruppo-interpretativo alla terapia familiare elaborato da Shapiro, infatti, l’organizzazione familiare è caratterizzata da due livelli di funzionamento. “Il primo di questi livelli consiste nel comportamento appropriato a questioni e compiti evolutivi all’interno della famiglia, è regolato in primo luogo dal principio di realtà ed è mediato principalmente dal pensiero del processo secondario. Ad un altro livello, secondo una modalità che può interferire con il conseguimento di compiti evolutivi nei membri della famiglia, il comportamento è determinato da fantasie inconsce condivise e da assunti inconsci generati da esigenze istintuali e richieste difensive che costituiscono un “programma nascosto” per l’interazione familiare” (Zinner e Shapiro, 1999, pag.90). Tali fantasie condivise svolgono prevalentemente la funzione di mantenere l’equilibrio fra i membri della famiglia motivando ed organizzando comportamenti ripetitivi che sembrano operare contro il cambiamento, lo sviluppo e l’individuazione dei componenti del contesto familiare (Zinner e Shapiro, 1999).
L’attenzione agli aspetti inconsci condivisi del funzionamento mentale della famiglia è presente anche negli interessanti contributi degli autori di scuola francese (Ruffiot et al., 1983 ; Eiguer, 1983). Nella terapia familiare, come sottolinea Eiguer (1983, pag.66), infatti,  si presta ascolto al “familiare”, inteso come mondo fantasmatico condiviso, “punto di intersezione in cui gli psichismi individuali si cancellano”. Questa perdita di limiti fra gli spazi psichici dei membri della famiglia, diventa una sorta di terreno mentale comune, definito dall’autore (1983), come spazio dell’inter-narcisismo. Nell’ambito di queste teorizzazioni sull’apparato psichico gruppale risulta di particolare interesse il concetto di sé familiare (Eiguer, 1983), che comprende gli aspetti dell’identità familiare, come sentimento di appartenenza, della storia comune, dello spazio abitabile, ma anche dell’ideale dell’io familiare quale istanza gruppale che si proietta nell’avvenire ed, infine, delle metaconoscenze inconsce o inconfessate che regolano i fenomeni interattivi entro il contesto familiare.
Abbiamo proposto uno sguardo, seppure incompleto e parziale su alcuni modelli di funzionamento mentale inconscio della famiglia, quale utile introduzione al tema, centrale nel nostro discorso, del controtransfert. Sul terapeuta, infatti, come vedremo meglio più avanti, vengono trasferiti gli oggetti del mondo oggettuale condiviso dal gruppo familiare ed i corrispondenti legami, in termini di affetti, pensieri, relazioni immaginarie (Eiguer, 1983). Come il terapeuta entra in contatto con tali sentimenti e pensieri spontanei evocati dalla relazione con la famiglia e quale utilizzo ne fa durante la terapia riguarda quindi l’area di indagine del controtransfert. 


3.1 L’Identificazione Proiettiva

Il concetto di identificazione proiettiva fin dalla sua introduzione da parte di M.Klein appare controverso e talvolta ambiguo.
La Klein ha formulato il concetto di identificazione proiettiva nel 1946, considerandola un potente organizzatore della vita mentale nella posizione schizoparanoide che si traduce in fantasie in cui il soggetto introduce la propria persona totalmente o parzialmente all'interno dell'oggetto per danneggiarlo, possederlo e controllarlo (Laplanche e Pontalis, 1967). Dalla prima concettualizzazione kleiniana di questo primitivo meccanismo che costruisce la vita mentale del bambino lungo le linee di fantasie primordiali, istintive e corporee (Seligman, 1999), molti autori si sono occupati di questo concetto, arricchendolo, criticandolo o respingendolo.
Una revisione del concetto di identificazione proiettiva è stata elaborata da Sandler (1987) che ha suddiviso il suo sviluppo in tre stadi. Nel primo stadio, che inizia con le formulazioni della Klein, il processo avviene unicamente nella fantasia ed è esclusivamente intrapsichico poiché non è interessato l’oggetto reale. La proiezione e l’identificazione, quindi, coinvolgono solo i processi di cambiamento nelle rappresentazioni mentali del Sè e dell’oggetto di una persona. Nel secondo stadio (legato alle teorizzazioni della Heimann) viene incluso  un aspetto interpersonale: l’oggetto reale (ad esempio l’analista) si identifica con la parte proiettate del Sè o con la rappresentazione oggettuale modificata e in questo modo si crea una risposta di controtransfert. Il terzo stadio (ripreso da Bion e dal suo modello del contenitore) in cui l’intenalizzazione di parti di Sè o dell’oggetto interno avviene direttamente nell’oggetto esterno, quindi l’oggetto esterno (es. madre o analista) contengono l’esperienza emotiva intollerabile e la modificano in una forma più tollerabile e può poi essere reintroiettata (es. dal bambino o dal paziente).
Kernberg (1988) distingue chiaramente l’identificazione proiettiva dalla proiezione: l’individuo mantiene un’empatia con gli aspetti proiettati e induce nell’oggetto una corrispondente esperienza intrapsichica, mentre nella proiezione si verifica il rifiuto di tutto ciò che è proiettato e non c’è intenzione di provocare tali sentimenti nell’oggetto. 
Per Kernberg il posto dell’identificazione proiettiva è colui che proietta, che si identifica tramimte empatia con l’oggetto entro cui ha proiettato aspetti non desiderati. In questo Kernberg si differenzia da Sandler che localizza il processo identificatorio nell’oggetto che è indotto in qualche modo ad identificarsi con gli aspetti scissi e proiettati di colui che proietta.
Nella teorizzazione di Bion (1962) il concetto di identificazione proiettiva gioca un ruolo fondamentale in quanto assume il carattere di comunicazione normale inconscia fra il bambino e la madre e fra paziente e analista; egli quindi ha ipotizzato che “sin dall’inizio della vita il paziente ha con la realtà il contatto che gli basta in modo da suscitare nella madre la presenza di quelle sensazioni che egli non intende avere o che comunque desidera che la madre abbia”, parimente nella situazione analitica la fantasia di scindere parti di sé nell’analista permetterebbe al paziente di suscitare nel terapeuta reazioni emotive specifiche.
Già in Bion, ma soprattutto in autori successivi (Ogden 1982, Ferro 1987), l’identificazione proiettiva è vista come una modalità primitiva di comunicazione inconscia non necessariamente infantile o psicotica, ma che fa parte di tutte le relazioni adulte e che opera anche dall’analista verso il paziente, così come dai genitori verso i figli. Per questo autore bisogna distinguere tra identificazione proiettiva evacuatrice e identificazione proiettiva di comunicazione dove quest’ultima implica il comunicare ciò che è insopportabile cercando l’aiuto nell’altro.
Un’interpretazione recente di questo concetto (Ogden 1982, Tansey e Burke,1989), è quella secondo cui il paziente proietta un oggetto interno sull’analista; il paziente esercita a quel punto una pressione interpersonale sull’analista affinché si senta critico e forse agisca anche criticamente, a quel punto si conclude che l’analista ha introiettato un oggetto interno critico del paziente e vi si è identificato. Eagle (2000) porta avanti una critica davanti a questa concettualizzazione sostenendo che se attraverso la pressione interpersonale il paziente induce l’analista a sentirsi critico verso di lui e fin anche ad agire criticamente, questo non indica necessariamente che l’analista si sia identificato con l’oggetto interno del paziente. Per poter arrivare alla conclusione che il paziente sta proiettando qualcosa sull’analista non è sufficiente segnalare semplicemente i sentimenti di ostilità dell’analista stesso, questi possono verificarsi anche in assenza di qualsiasi proiezione “è necessario disporre di una buona quota di prove cliniche per poter inferire che in quel caso ha avuto luogo una proiezione” (Eagle, 2000, p.36).


3.2 L’identificazione Proiettiva nelle famiglie degli adolescenti

Negli Stati Uniti l’identificazione proiettiva viene considerato da alcuni teorici (Sharff, Shapiro, ecc.) un concetto "ponte" tra la psicoanalisi classica e quella interpersonale, in quanto permette di tenere conto dell’importanza dell’interazione tra le persone nella genesi della psicopatologia, uscendo così da un'ottica puramente individuale o intrapsichica.
In questo contesto risultano importanti i contributi di alcuni autori americani come J. Scharff, R.Shapiro, J.Zinner in quanto viene ripreso il concetto di identificazione proiettiva e come esso opera in particolare all’interno della famiglia dell’adolescente. Gli autori riprendendo il concetto di identificazione proiettiva hanno messo in evidenza, nella famiglia, il reciproco rapporto tra delineazioni, cioè comprensione del proprio mondo interno, e delimitazioni, comprensione dei confini tra sè e l’altro, dove nel secondo caso, cioè quello in cui prevalgono modalità esternalizzanti, emergono collusioni, con difficoltà nel processo di individuazione e differenziazione. In questo contesto l’ identificazione proiettiva corrisponde a “un’attività dell’Io che ha l’effetto di modificare la percezione dell’oggetto e, in modo reciproco alterare l’immagine del se. […] L’identificazione proiettiva per operare in modo efficace deve rispondere al fatto che la vera natura della relazione fra il se e la sua parte proiettata rimanga inconscia anche se l’individuo può percepire un legame mal definito o un’affinità nei confronti della persona che riceve le sue proiezioni” (Zinner, Shapiro, 1999, p. 70). All’interno della famiglia il genitore può sperimentare una gratificazione sostitutiva dei propri impulsi attraverso l’adolescente o  può ripudiare e punire l’adolescente per l’espressione di quegli stessi impulsi.
Gli autori, sopra citati, giungono alla conclusione che la natura del materiale proiettato nelle relazioni tra genitori ed adolescente contiene elementi fortemente conflittuali della relazione oggettuale dei genitori con le proprie famiglie di origine. La proiezione da parte dei genitori non svolge solo una funzione difensiva ma anche una funzione riparativa di portare in vita i propri oggetti perduti attraverso i figli. Tale reenactment delle prime relazioni oggettuali di un genitore nel contesto della famiglia in cui è egli stesso un genitore può prendere la forma di attribuzioni di ruolo molto fluide per cui un figlio può essere sia genitorializzato sia infantilizzato. Viene espressa dagli autori la convinzione che l’identificazione proiettiva sia operante sia nelle famiglie “sane” che in quelle “disturbate”. L’ identificazione proiettiva può dar vita ad una relazione connotata da qualità empatiche saltuari, oppure, al contrario, può produrre attribuzioni vincolanti nei quali i figli rimangono ancorati all’economia difensiva genitoriale “osserviamo frequentemente come i genitori esprimono delineazioni dei loro figli adolescenti paragonandoli a sè. A volte, la distinzione fra le percezioni che il genitore ha di se stesso e dell’adolescente diventa completamente confusa” (Zinner, Shapiro,1999, p.72)
L’ entità della collusione del figlio con un’identificazione proiettiva del genitore può essere dettata da un’opportunità di realizzare delle fantasie onnipotenti sostenute dal potere che il figlio detiene nel determinare l’esperienza di se del genitore, la tacita compiacenza genitoriale con le necessità difensive dell’adolescente “crediamo però che la motivazione più rilevante per la collusione dell’adolescente sia legata al suo timore di perdere l’oggetto, che potrebbe avverarsi se egli non agisse in favore dell’organizzazione difensiva dei genitori” (ibid., p. 71). In modo reciproco per l’adolescente l’identificazione proiettiva con i genitori consente l’utilizzazione del piccolo gruppo familiare per scopi difensivi “di fatto la sperimentazione con le fonti di gratificazione pulsionale, che è tipica dell’adolescenza, può richiedere la proiezione parzialmente rinnovata del Super io dell’adolescente sui genitori per alleviare l’inibizione dell’azione che potrebbe derivare dalla persistente interiorizzazione degli aspetti più severi del super Io dell’adolescente” (ibid., p. 73).
La famiglia è un gruppo, un’istituzione ed è anche un sistema interiorizzato di relazioni; attraverso l’identificazione proiettiva reciproca e l’interiorizzazione effettuata da ciascuno, di ognuno degli altri, la famiglia interiorizzata è presente in ogni componente (Nicolò Corigliano, 1999). Le identificazioni familiari inconsce si sviluppano nel tempo determinando disturbi gravi che possono portare a gravi patologie individuali. I disturbi di un membro della famiglia spesso possono derivare dal bisogno comune di mantenere l’unità del gruppo o di coppia: si stabilisce spesso una complicità gruppale che mira a conservare il sistema persecutore- perseguitato: ne risulta un’alienazione del se in cui tutti diventano prigionieri di ciò che hanno proiettato sull’altro, si parla quindi di identificazioni multiple e incrociate (Eiguer, Litovsky, 1983). Nella terapia familiare l’identificazione proiettiva ha, quindi, un ruolo fondamentale sia nel setting familiare sia nel trattamento in quanto rappresenta il maggior legame tra i concetti di ruolo e di processo inconscio, tra individuo e gruppo e tra individuo e famiglia: ed è proprio tale concetto che va sviluppato con le famiglie (Box, 1978). Tale concetto nella terapia familiare permette di comprendere i processi inconsci che agiscono tra i membri della famiglia  e le dinamiche familiari attraverso l’esperienza reciproca dei terapeuti e dei membri della famiglia nel contesto terapeutico. I due terapeuti nell’interazione con la famiglia e nel controtransfert cercano di accogliere l’identificazione proiettiva, di ritagliare uno spazio dove comprendere ciò di cui la famiglia intende liberarsi, fornendo un adeguato contenimento. Si può avere a che fare con una comunicazione che la famiglia non sa esprimere in altro modo ma se l’identificazione proiettiva tende alla scarica o al controllo i tentativi per contenerla possono far scaturire odio e mettere in pericolo il processo terapeutico stesso. L’analizzare l’identificazione proiettiva può permettere l’espressione di ciò che è stato controllato attraverso l’attribuzione di ruoli all’interno della famiglia (Moustaki, 1985).



 

4. Aspetti controtransferali nel lavoro con le famiglie


Nella terapia familiare si può considerare, in generale, il controtransfert come l’esperienza affettiva che il terapeuta ha nell’incontro con la famiglia. Esso, in altri termini, comprende la totalità delle risposte affettive, quali sentimenti, pensieri spontanei, dell’analista nei confronti del transfert del gruppo familiare. Come sottolinea Nicolò (1983) non è, infatti, possibile concepire il controtransfert al di fuori di una relazione di transfert. Transfert e controtransfert “costituiscono il ponte vivente fra il terapeuta e la famiglia, attraverso il quale gli assunti inconsci della famiglia, le identificazioni proiettive reciproche, le relazioni dolorose e le carenze nel fornire l’ holding l’uno all’altro possono venire sperimentati, compresi e restituiti alla famiglia in forma modificata” (Scharff, 1999, pg.219). 
Spesso tuttavia, osserva Eiguer (1983), si parla di controtransfert senza menzionare il transfert anche perché, continua l’autore, non sempre i terapeuti, dal punto di vista teorico, dispongono di un corpo concettuale chiaro per pensare la famiglia come un’unità che sdoppia la sua problematica centrale su un oggetto esterno (il o i terapeuti). Secondo Eiguer (1983) quando in terapia familiare si ignora il transfert, questo si insinua sotto forme altamente idealizzate e “magiche” e, proprio perché se ne vieta l’analisi, si impedisce lo sblocco di questa idealizzazione del terapeuta.
D’altro canto anche l’uso del concetto di controtransfert in terapia familiare pone una serie di domande assai complesse e peculiari.
Sia che venga considerato come un indizio di problemi non risolti nel terapeuta o, in un ottica più produttiva, come fonte di informazioni significative sulle difficoltà presenti nel sistema familiare (Shapiro, 1983), la recente letteratura è comunque d’accordo nel considerare il controtransfert un fenomeno a cui non ci si può sottrarre, neppure con una terapia strategica. Si può al massimo non riconoscerlo (Nicolò, 1983).
È interessante, peraltro, come Loriedo e Vella (1985), in un ottica relazionale-sistemica, utilizzino il termine di coinvolgimento del terapeuta per richiamare l’attenzione su quei fenomeni dell’esperienza clinica che nella terapia psicoanalitica verrebbero indicati come manifestazione del controtransfert.
Pertanto, prima di affrontare più in dettaglio il tema di nostro interesse riteniamo utile accennare brevemente alla letteratura sul transfert in terapia familiare. Losso (2001), utilizzando le teorizzazione sulle reazioni transferenziali attive nei gruppi informali, ha individuato in terapia familiare:1) un transfert gruppale riguardante i legami di tutto il gruppo con il terapeuta; 2) i transfert individuali espressione dei legami di ognuno dei membri con il/i terapeuti; 3) i transfert laterali tra i membri del gruppo. Anche Balmer (2005) parla di un reticolo di transfert che si attiva nel lavoro terapeutico con la famiglia e di cui se ne possono analizzare, tuttavia, solo gli aspetti più importanti, ovvero il transfert verso il terapeuta (utile come modello di riflessione), accanto ai transfert carichi di emotività molto intensa (espressa o bloccata).
Scharff (1991) considera il transfert come derivante da due aspetti dell’ “entrare in relazione” che danno luogo rispettivamente ad un transfert contestuale e ad uno focalizzato. Il primo appare prevalente nelle fasi iniziali della terapia e si fonda sulle aspettative e i timori circa l’adeguatezza dell’ holding e della capacità del terapeuta di aiutare la famiglia. L’attenta considerazione di questo primo aspetto facilità, secondo Scharff (1991) lo sviluppo di un transfert focalizzato, in cui la famiglia sperimenta una modalità di relazione centrata, basata sulla proiezione delle relazioni oggettuali interne sul terapeuta. Secondo Scharff “il terapeuta può organizzare la comprensione della famiglia in modo più agevole e con maggiore utilità intorno alle conoscenze che derivano dall’analisi del transfert condiviso della famiglia” (1991, p.220).
Per Eiguer, infine, “il transfert in terapia familiare è il comune denominatore dei fantasmi e degli affetti collegati a un oggetto del passato familiare e riferito (per spostamento e proiezione) al terapeuta” (1983, p.71). L’autore considera i transferts individuali come instabili e di poco interesse per un lavoro centrato sulla famiglia come unità di funzionamento. In questo senso, Eiguer (1983) esplicita la difficoltà di utilizzare un modello delle reazioni transferenziali del gruppo informale con il gruppo familiare in terapia. I legami fra i membri della famiglia, infatti, contrariamente a quelli del gruppo sono stabili già prima della terapia e le rappresentazioni inconsce reciproche sono già consolidate. Ecco perché in terapia familiare, secondo Eiguer “il transfert è essenzialmente quello centrale sul terapeuta” (1983, p.72). A sua volta questo transfert centrale presenta tre aspetti: 1) transfert sul terapeuta; 2) transfert sulla cornice (rappresentazione della cornice); 3) transfert sul processo (aspettative sul trattamento) (Eiguer, 1983). Solo con il procedere della terapia le famiglie giungono a comprendere che cornice e processo appartengono non al terapeuta ma alla relazione. Questo consente, secondo l’autore, di liberare, in una fase successiva, il transfert oggettualizzato sul terapeuta (Eiguer, 1983). 
Su questo sfondo teorico, il controtransfert diventa per Eiguer (1983) l’estensione dei problemi che la famiglia non riesce a comunicare e che, grazie ad esso, possono essere affrontati. In terapia familiare, tuttavia, ciò che rende particolarmente complicato questo processo è il fatto che il terapeuta ha delle reazioni affettive non solo verso ciascun componente, ma anche nei confronti della famiglia nel suo insieme e delle relazioni che legano le persone fra loro (Shapiro, 1983).
“Il controtransfert in terapia familiare è non solo più complesso ma spesso anche più intenso che nelle altre forme di terapia. (…) A differenza di quello individuale, il terapista familiare è in genere più attivo e più coinvolto nelle interazioni con i vari membri della famiglia; di conseguenza le sue reazioni sono molto più difficili da nascondere” (Shapiro,1983, p.92).
Eiguer (1983), a riguardo, specifica tre aree principali in cui si possono individuare le produzioni controtransferali del terapeuta: 1) nel campo del pensiero, disturbi dell’ideazione, ruminazioni eccessive o impressioni di diventare pazzo possono assalire il terapeuta alla fine della seduta; 2) nel campo dell’affettività rappresentano specifici indizi la perdita di stima o al contrario l’esaltazione megalomania circa la qualità del lavoro svolto; 3) nel campo dell’azione, infine, “la famiglia disturbata che difetta nell’elaborazione mentale e nella fantasmatizzazione cosciente produce gesti e atti con debole valore simbolico. Questo può spingere i terapeuti a rispondere in modo operatorio, direttivo, attivistico” (Eiguer, 1983, p.81).
Proprio l’agire del terapeuta, secondo Nicolò (1983), se non è consapevole, può diventare una resistenza controtransferale. “Il terapeuta può reagire all’aggressività [della famiglia] con aggressività verbale o con un intervento terapeutico aggressivo, con il rifiuto interno della famiglia o di una parte di essa, con l’indurre un interruzione prematura delle sedute o della stessa terapia” (Nicolò, 1983, p.98).
L’induzione narcisistica, descritta da Eiguer (1983; 1983), come meccanismo di difesa molto vicino all’identificazione proiettiva ma che presenta, rispetto a quest’ultima, una diretta e inevitabile ricaduta sul piano dell’azione e dei comportamenti, risulta utile per capire come e quanto il gruppo familiare cerchi di “fare agire” il proprio terapeuta. 
Dietro ad una modificazione del progetto terapeutico, infatti, qualora non sia sufficientemente pensata, esplicitata e condivisa con la famiglia, si possono spesso individuare gli effetti, nel terapeuta, del suo lasciarsi influenzare da una induzione narcisistica. In questi casi, per esempio, si può non aver voglia di mantenere il rigore tecnico, dare consigli, proporre sedute supplementari o consultare altre fonti di informazioni inutili (Eiguer, 1983).
Queste forme negative del controtransfert, tuttavia, non devono far dimenticare che “il controtransfert è anche il fattore emozionale stimolante che in altri momenti può rendere il compito del terapeuta gradevole, paziente, comprensivo, pieno di curiosità scientifica e di interesse per l’evoluzione del gruppo” (Eiguer, 1983, p.82).
Peraltro, come ammonisce Shapiro (1983), anche i vissuti positivi se inappropriati possono danneggiare il lavoro terapeutico, determinando squilibri nella relazione fra il terapeuta ed i vari membri della famiglia.
Stierlin (1979), a riguardo, parla di imparzialità interiormente partecipe del terapeuta quale atteggiamento essenziale nel lavoro con le famiglie. L’autore, infatti, rileggendo la multidirectional partiality del terapeuta proposta da Boszormenyi-Nagy (1972), pone l’accento sulla correttezza basilare del terapeuta che, pur nel suo crescente coinvolgimento interiore con i singoli membri, cerca di dare a tutti i familiari la sensazione di essere compresi e stimati.
Non a caso, Stierlin (1979) considerata la controtraslazione nella psicoterapia familiare come una deviazione dal comportamento terapeutico di “imparzialità partecipe”.

    
 
4.1 Controtransfert e miti familiari

I miti possono essere intesi come fantasie inconsce gruppali transgenerazionali che fanno parte dell'universo simbolico familiare, riguardano in genere la storia familiare e si rimodellano, nel corso del tempo, pur lasciando un nucleo intatto all'origine che a volte resta segreto nel corso delle generazioni (Nicolò, 1996).
Alla sua costituzione e al suo permanere contribuiscono tutti i membri della famiglia, di generazione in generazione, organizzando così la continuità della cultura del gruppo familiare e perpetuando, nelle situazioni patologiche, un funzionamento traumatogeno per l'individuo.
I miti familiari perciò, sia che si considerino una fantasia inconscia gruppale condivisa, o (come affermano gli autori sistemici) una serie di credenze solidamente integrate e condivise da tutti i membri della famiglia, che riguardano gli individui e le loro relazioni, descrivono i ruoli e le attribuzioni tra i membri della famiglia nelle loro interazioni reciproche.
A volte questi miti richiedono grosse distorsioni della realtà, ma non sono mai negati da nessuna delle persone che vi sono implicate.
Essi differiscono perciò dall'immagine che come gruppo la famiglia offre all'esterno, ma è invece una parte dell'immagine interna di esso a cui tutti contribuiscono e si sforzano di conservare.
Il mito non racconta solamente qualcosa, ma piuttosto parla attraverso ciò che racconta. Il materiale narrativo che forma il mito è lo strumento attraverso il quale il mito comunica.
La funzione del mito è quella di spiegare, coprendoli, gli aspetti conflittuali della storia del gruppo che hanno a che vedere con l’identità familiare. Stabilisce le condizioni di appartenenza alla famiglia, e instaura un sistema di valori che regolano la conoscenza – e la lettura – della realtà esterna ed interna (Nicolò, 1988).
I miti servono pertanto al bisogno di orientarsi (offrono un’immagine più o meno coerente di “quello a cui la famiglia mira”), ai bisogni di relazioni umane (ancorando i componenti della famiglia a legami reciproci), come anche ai bisogni di giustizia interpersonali (attribuiscono colpe e peccati a determinati familiari).
Losso (1990) evidenzia come il mito risulta da un’elaborazione secondaria di ricordi legati a situazioni traumatiche rimosse, denegate o dissociate, che caratterizzerà il mito secondo il meccanismo predominante. Il mito potrà, così, essere espressione di funzionamenti rigidi, narcisistici, dove predominano meccanismi di difesa “primitivi”, i miti “bizzarri”, generatori di patologie più gravi; e funzionamenti familiari in relazione a miti più flessibili, più vicini al versante nevrotico.
Nella psicoanalisi con le famiglie, in cui vi è la presenza reale del gruppo familiare, vi è una mobilitazione delle strutture mitiche (della famiglia e dei terapeuti) che porta a creare un clima emotivo che riattiva i livelli più primitivi o più indifferenziati dei legami introiettati. I miti vengono ripetuti nel qui ed ora delle sedute, i transfert familiari tendono ad inglobare i terapeuti dentro il mito familiare e quindi anche nel funzionamento familiare strutturato da questo mito. La famiglia cerca cioè di invischiare i terapeuti nel mito familiare trasferendo su di essi le immagini corrispondenti ai personaggi della mitologia familiare, si parlerà allora di quello che Czertok et al. (1993) definiscono transfert mitico. La famiglia tenterà di spostare sui terapeuti gli stessi meccanismi che hanno contribuito ad “ammalarla”. Questo può portare i terapeuti a provare vissuti di impotenza, lentezza, confusione, sentimenti che la famiglia non riesce ad esprimere e tende ad evitare. L’analisi del controtransfert diventa in questo contesto di fondamentale importanza, un insieme di sensazioni e sentimenti vissuti dall’analista (o dagli analisti) nella cornice dell’intreccio dei miti della famiglia e di quello proprio. Processi questi che vengono chiamati da Czertok et al. (1993) valenze collusive e possono assumere due forme. Nella prima l’analista (o gli analisti) orienta i transfert intrafamiliari verso di lui agevolando la diminuzione di quei transfert. Nella seconda forma del processo di collusione la famiglia tende ad inglobare l’analista nel mito familiare facendogli assumere il posto del paziente designato (Pichon, Rivière, 1971). Questo processo può portare l’analista a schierarsi con un membro della famiglia o a identificarsi con un membro o con un sottogruppo, ciò può fungere da “segnale” da “avvertimento” che qualcosa sta accadendo, che ci si sta invischiando nel mito familiare. Se l’analista (o gli analisti) conserva la capacità di dissociarsi e di capire cosa sta accadendo, questo processo di comprensione del mito potrà essere utilissimo per una valutazione delle dinamiche messe in atto dalla famiglia e per iniziare un processo di riscatto del senso della storia familiare (Abadi, 1980b).
Di fondamentale importanza risulta essere, nella psicoanalisi familiare, la coterapia in modo che se uno dei terapeuti rimane invischiato nei processi di cui abbiano parlato, l’altro può assumere le funzioni di Io osservatore, di “segnale”, di secondo sguardo, e “riscattare” il coterapeuta durante la seduta e anche dopo nella discussione del caso.


4.2 Utilizzo e “destini” del controtransfert

Prendendo spunto da alcuni interessanti contributi presenti nella letteratura (Searles, 1974; Shapiro, 1983; Nicolò, 1983; Box et al., 1985) vorremo in questa parte del nostro lavoro, affrontare i possibili usi ed effetti delle reazioni controtransferali del/dei terapeuti.