martedì 31 maggio 2011

PERCHE' RICHIEDERE UNA CONSULENZA PSICOLOGICA:

Il nostro progetto di lavoro è orientato ad offrire un sistema di consulenze psicologiche e psicoterapie altamente qualificate e a costi ridotti. Il cliente è il centro dei nostri interessie attorno al quale pensiamo una vasta gamma di servizi psicologici che risultino FLESSIBILI per tempi e obiettivi, sempre SOSTENIBILI nei costi e soprattutto VICINI alle esigenze dei nostri interlocutori. Più in particolare possiamo dire che la consulenza psicologica è un lavoro metodologico che coinvolge lo psicologo e il suo o i suoi clienti, fondato sull'ascolto, sul pensiero e sulla comprensione condivisa, attraverso il dialogo, dei motivi dell'incontro. Per il cliente rappresenta un percorso di progressiva indagine e scoperta rivolto a sè stesso e ai modi in cui partecipa a contesti e relazioni significative della propria esistenza. La "materia prima" di questo processo produttivo è il racconto libero che il cliente fa di episodi, situazioni, idee, sentimenti, pensieri
e sogni che ritiene di voler condividere con lo psicologo durante il tempo dell'incontro. Narrare noi stessi, infatti, è un modo per  seguire e rappresentare il nostro percorso di vita, capire le scelte fatte, individuare associazioni e nessi fra le cose, emozionarci per ciò che ci accade ed elaborare esperienze spiacevoli.
Pensare alla possibilità di intraprendere un lavoro psicologico diviene una scelta indicata in varie situazioni, ne vorremmo citare alcune: 

Quando la persona avverte un senso di disorientamento, una crisi di decisionalità ed una carenza di strumenti per affrontare in maniera adeguata una serie di scelte presenti che possono riguardare il proprio futuro personale, familiare, formativo o professionale. Pensiamo, così, a chi è indeciso su quale percorso formativo intraprendere o, da troppo tempo, bloccato in maniera improduttiva in
studi che percepisce inutili; pensiamo a chi vorrebbe entrare nel mondo del lavoro, cambiare settore d'impiego, capire quali capacità e abilità possiede e come renderle spendibili sul mercato; pensiamo a chi è confuso rispetto alla propria vita privata, alla scelta del partner, alla costruzione di legami più solidi e formali, all'autonomia dal nucleo familiare.

Quando l'esistenza della persona è fortemente limitata dalla presenza di sintomi particolari come ansia, depressione, attacchi  di panico, preoccupazioni sul proprio stato di salute, paure persistenti rispetto a oggetti o situazioni specifiche, presenza di azioni o  rituali ossessivi, capaci di inibire, annullare o condizionare significativamente la normale gestione delle attività quatidiane, segnando profondamente la qualità della vità e le possibilità affettive, sociali e professionali dell'interessato.

Quando le difficoltà della persona riguardano prevalentemente la sfera delle sue relazioni interpersonali significative con conflitti prolungati entro il contesto familiare, professionale, di coppia o amicale. Pensiamo ai contrasti o all'incomunicabilità nel rapporto fra un genitore e il proprio figlio, specie se adoloscente; alle tensioni persistenti, in ambito lavorativo, nel rapporto con  colleghi o superiori (situazioni di stress, mobbing, burnout); a disaccordi e controversie con il partner, entro rapporti di coppia spesso caratterizzati da distacco, svalutazione o indisponibilità dell'altro. 

Quale supporto per aiutare la persona ad affrontare le crisi che accompagnano e caratterizzano specifiche fasi di vita come l'adolescenza, una gravidanza e la successiva genitorialità, la menopausa o il pensionamento, ma anche di fronte ad eventi meno prevedibili, improvvisi e particolarmente critici e stressanti come il lutto per la perdita di un proprio caro, un incidente, una malattia, una separazione, il licenziamento dal posto di lavoro.

Quando le difficoltà della persona hanno a che fare con la perdita delle sue capacità regolative e di autocontrollo rispetto a  particolari aree del proprio comportamento e della percezione di sè, ad esempio, relativamente alla sfera alimentare, all'abuso di sostanze (fumo, alcool, droghe), alla dipendenza dal gioco o da altre attività come lo shopping o lo sport compulsivi.

Il nostro progetto terapeutico solitamente prevede una fase conoscitiva iniziale, della durata di 3/4 incontri, utile allo psicologo  e al suo cliente per esprimere, definire e comprendere le ragioni che hanno motivato la richiesta dei colloqui e valutare la possibilità  di avviare un lavoro clinico comune a partire da obiettivi, tempi e modalità concordate fra le parti. Questa prima fase iniziale di  consulenza può dare avvio ad iniziative metodologiche di vario tipo, in relazione alle esigenze del cliente ed alla specificità della
sua domanda, che comprendono: 1) Consulenza psicologico-clinica individuale, di coppia o familiare;
2) Psicoterapie brevi o senza limite temporale definito; 3) Psicoterapie di gruppo; 4) Consulenza di
orientamento formativo o lavorativo
.


Il TARIFFARIO delle nostre prestazioni professionali prevede la possibilità di accedere ai servizi psicologici offerti, anche a persone con limitata disponibilità economica, con prezzi da concordare in relazione alle  specifiche esigenze del cliente.

PER MAGGIORI INFORMAZIONI CONTATTARE IL N. 06 7014826 O INVIARE UNA MAIL A: consulenza@prospettivepsicosociali.org




L’INCUBO FRA CREDENZE E TEORIE


Per cominciare daremo una definizione del fenomeno psichico di nostro interesse, soffermandoci, in particolare, sull’origine del termine, sul ruolo delle superstizioni e delle credenze popolari e su alcune teorie cliniche relative alle sue possibili cause.
Il termine incubo indica un sogno angoscioso particolarmente intenso, in cui lo stato di terror panico si accompagna ad evidenti reazioni fisiologiche quali la palpitazione, la traspirazione ed un peso al petto che determina un allarmante senso di soffocamento. È caratteristica, inoltre, la trasformazione di emozioni e paure in particolari animali, creature sub-umane o in altri mostri che determinano il risveglio della persona in preda al terrore.
L’incubo è in genere considerato come una varietà del sogno d’angoscia, caratterizzato semplicemente da maggiore intensità, tuttavia gran parte degli autori (Marcelli, 1997; Hartmann, 1984; Kellerman, 1987) ne sottolineano l’ambiguità del termine, dato che comprende anche i terrori notturni o pavor nocturnus, di cui il dormiente non ricorda niente al risveglio, e gli incubi post-traumatici.
Ciò che caratterizza, infatti, i veri incubi o sogni d’angoscia intensi è il fatto di essere lunghi, spaventosi, vividi e verosimili, tanto da apparire reali anche dopo il risveglio, e questo li rende profondamente diversi dai terrori notturni di cui non rimane alcuna traccia in memoria.
Fisher (Kellerman, 1987), in particolare, monitorando i cicli del sonno di numerosi soggetti, ha osservato che i terrori notturni  sopraggiungono durante il IV stadio di sonno lento, in una fase non-REM, e sono caratterizzati dall’irrompere improvviso di una profonda angoscia, da pianti e vocalizzazioni, da uno stato di confusione allucinata e da alterazioni della frequenza respiratoria e circolatoria, seguite da amnesia.
L’EEG ha dimostrato che si tratta di un risveglio dissociato, con attivazione neurovegetativa da una parte e la corteccia che resta in sonno lento profondo dall’altra, dovuto probabilmente ad un angoscia estrema e non elaborabile che affligge l’apparato psichico (Marcelli, 1997).
La gran parte delle esperienze di incubo ricordate e raccontate dal soggetto, quindi, non riguardano i terrori notturni, ma sogni d’angoscia particolarmente intensi caratteristici delle fasi di sonno REM.
 È chiaro, dunque, che la denominazione di Incubo abbraccia  fenomeni molto diversi fra loro riguardo a caratteristiche cliniche e cause, rivelando così quella mancanza di sufficiente specificità necessaria in un discorso scientifico.
Per quanto concerne invece l’origine del termine, questa ci riporta alle credenze popolari che in tutte le epoche hanno attribuito l’incubo alla presenza di esseri soprannaturali.
L’Efialte greco, l’Incubus latino e medioevale, il Mara dei paesi nordici, i Follets francesi, indicano tutti un demone libidinoso che sedendosi sul petto delle vittime, ne blocca il respiro e i movimenti e le aggredisce sessualmente.
Numerosi, peraltro, sono stati anche i tentativi di spiegare il fenomeno in modo più razionale e scientifico, chiamando in causa, per esempio, disturbi gastrici, alterazioni del sistema circolatorio o respiratorio, e individuando spesso come fattore scatenante persino la posizione supina del dormiente.
“Fu Freud il primo a dimostrare l’intimo nesso esistente tra il terrore intrapsichico e gli impulsi sessuali rimossi” (Jones, 1959, pg.315).
“Mentre del sogno infantile si può dire che è l’aperto appagamento di un desiderio ammesso, e del comune sogno deformato che è l’appagamento camuffato di un desiderio rimosso, al sogno d’angoscia si adatta soltanto la formula che è l’aperto appagamento di un desiderio rimosso” (Freud, 1915, pg.196).
In quest’ultimo caso, infatti, il desiderio è talmente impetuoso da sopraffare le forze della censura e, nello stesso tempo, è assolutamente inaccettabile, creando, così, le condizioni per un intenso conflitto mentale che può essere risolto soltanto rinunciando allo stato di sonno e generando angoscia.
Su queste basi Jones (1959) ha avanzato l’ipotesi che l’angoscia e il terrore sono nell’incubo così intensi poiché hanno origine nella zona della massima “rimozione”, ossia, quella che riguarda le tendenze incestuose della vita sessuale.
In altri termini, l’incubo, secondo il modello psicoanalitico, “è essenzialmente dovuto a un intenso conflitto mentale che si accentra su una componente rimossa dell’istinto psico-sessuale, fondamentalmente legata all’incesto, e che può essere provocato da qualsiasi stimolo periferico che serve a scatenare la massa dei sentimenti rimossi” (Jones, 1959, pg.52).
A ben vedere, questa teoria si fonda, quindi, su una sintesi creativa di idee, credenze ed ipotesi che circolavano, in quel periodo, nei vari ambienti scientifici e non.
 Il pensiero psicoanalitico, infatti, da una parte ha colto l’importanza che le credenze popolari attribuivano all’elemento sessuale dell’incubo, pur considerando le superstizioni una proiezione nel mondo esterno di desideri inconsci, dall’altra ha integrato, ridimensionandole, le teorie mediche sul ruolo che gli stimoli periferici di natura organica svolgono nello scatenare l’incubo.
 A conferma di questa teoria, inoltre, alcuni autori hanno richiamato l’attenzione su tre elementi: il carattere sessuale che le varie tradizioni folcloristiche hanno sempre attribuito al demone dell’incubo; i profondi legami che il termine ha con quello di “Incubazione”, procedura diffusa nell’antica Grecia, a Roma e in altre parti del mondo, che consisteva nell’unione di un essere umano con una divinità, durante il sonno e all’interno di un tempio; ed infine la comparsa caratteristica degli incubi, nel bambino, a partire dalla fase edipica.
Il sogno d’angoscia più conosciuto nella storia della psicoanalisi è, probabilmente, quello raccontato nel “caso dell’uomo dei lupi” (Freud, 1914) che evidenzia un meccanismo particolare nella rappresentazione onirica delle paure, ossia l’associazione fra esseri umani e animali, presente, tra l’altro, anche nel “caso del piccolo Hans”.
Jones (1959) ha osservato come nel sogno le emozioni inconsciamente rappresentate da un animale derivano sempre da pensieri, desideri rimossi e terrori che riguardano un essere umano, in particolare un genitore.
“La presenza di un animale in un sogno denota sempre l’influenza di un complesso incestuoso” (Jones, 1959, pg.228). 
Questa trasformazione, caratteristica di sogni e miti, da una forma umana in una forma animale indicherebbe, secondo una lettura acontestuale e simbolica dell’evento psichico, un conflitto fra le forze contrastanti del desiderio e dell’inibizione, soprattutto quando il passaggio è da un estremo di attrazione e bellezza ad uno di repulsione e bruttezza.
L’oggetto visto nell’incubo, pertanto, incute paura e repulsione, semplicemente, perché rappresenta un desiderio inconscio inaccettabile a cui non è permesso di manifestarsi nella sua vera forma.
Anche i sogni di punizione, con contenuti sadici e masochistici, peraltro, vengono considerati come realizzazioni di desideri che, tuttavia, non riguardano impulsi istintuali, ma impulsi critici, censori e punitivi derivanti dal Super-Io.
Interessanti risultano anche le posizioni di alcuni teorici delle relazioni oggettuali (Fairbairn, Klein, Guntrip), i quali sostengono che i soggetti sofferenti da incubi cronici tendono spesso a rivelarsi fallimenti della posizione depressiva, che trovano l’ambivalenza, la perdita, il senso di colpa e il dolore intollerabili.
Nell’incubo il soggetto regredisce dalla paura di perdere o distruggere gli oggetti da cui dipende, ad un terrore più basilare in cui tutto diventa persecutorio e l’Io è minacciato di annichilimento (Kavaler, 1987).
È il mondo pre-edipico che emerge vividamente nell’incubo, in cui la preoccupazione, l’empatia, il senso di colpa e il prendersi cura degli altri sono temporaneamente perduti, per lasciare spazio alle angosce schizo-paranoidi di persecuzione, soffocamento, intrappolamento e disintegrazione dovute agli oggetti cattivi.
Spesso queste ansie schizoidi sono rappresentate con incubi di vuoto, di isolamento o di oceani scuri che minacciano di annichilire e annullare l’Io.
 Questo punto di vista, dunque, considera l’incubo una via d’accesso importante nello studio degli aspetti più profondi dello sviluppo delle relazioni oggettuali.
The return to the paranoid-schizoid position, within the nightmare, can be used therapeutically to get back to the deepest fears of self-annihilation fears that can continually undermine depressive-position processes of love, integration, reparation, and differentiation” [La regressione alla posizione schizo-paranoide, nell’incubo, può essere usata terapeuticamente per ritornare alle più profonde paure di annichilimento dell’Io paure che possono continuamente minare i processi della posizione depressiva dell’amore, integrazione, riparazione, e differenziazione] (Kavaler, 1987, pg.39).
Una teoria diversa è, invece, quella proposta da Hadfield (1968), che considera i sogni come la riproduzione di problemi insoluti.
Nell’incubo, in particolare, di fronte alla mancanza di possibili soluzioni al problema, si crea un conflitto psichico di dimensioni talmente allarmanti e terrificanti da determinare il risveglio angosciato della persona.
L’autore distingue tre principali tipi di incubi.
Il primo tipo è di origine traumatica e deriva da esperienze oggettive vissute durante l’infanzia o l’età adulta.
In questo caso l’incubo è la riproduzione di esperienze traumatiche passate alle quali l’individuo non aveva saputo rispondere in modo adeguato.
Fanno parte di questa categoria gli incubi dei reduci di guerra e di individui che hanno vissuto particolari violenze, catastrofi o altri tipi di stress intensi, quali la perdita di una persona cara, malattie, operazioni chirurgiche, a volte anche licenziamenti o trasferimenti non voluti.
Questi sogni rappresentano un indicatore del “Disturbo post-traumatico da stress” (DSM IV).
Alcuni autori (Kellerman, 1987) comprendono in questa categoria anche tutta una serie di sogni che avvengono durante il trattamento psicoanalitico, nei quali riemerge il ricordo di eventi traumatici rimossi accaduti durante l’infanzia.
Il secondo tipo è rappresentato da incubi che derivano dal timore che la persona ha dei propri impulsi, sia sessuali che aggressivi.
I sensi di colpa e, nel bambino, lo sviluppo di una coscienza morale determinano, infatti, la proiezione, la personificazione e l’oggettivazione di emozioni sessuali, collera o paura in quella svariata moltitudine di mostri che popolano gli incubi.
Anche il terrore di disastri impellenti, malattie, o le sensazioni di soffocamento e abbandono che caratterizzano molti sogni d’angoscia sono, secondo l’autore, di natura morale, quale temuta conseguenza e punizione per i desideri proibiti. 
Il terzo tipo, infine, deriva dall’oggettivazione di sensazioni organiche disordinate.
Ragni e granchi, per esempio, “sono la rappresentazione dei nostri disturbi addominali oggettivati e proiettati sotto queste forme” (Hadfield, 1968, pg.250).
Emozioni molto intense spesso di natura sessuale, infatti, si accompagnano a particolari processi fisiologici che vengono rappresentati nel sogno attraverso queste creature. I granchi allora, secondo l’autore, deriverebbero dalla contrazione dei muscoli addominali dovuta ad eccitamento sessuale, mentre i ragni, con le loro numerose zampe, descriverebbero quelle sensazioni che a seguito dell’orgasmo si propagano ed estendono a tutto il corpo.
“Gli incubi si presentano così perché queste creature sono le rappresentazioni più adatte per queste sensazioni organiche, altrimenti impossibili a descriversi; e l’universalità di queste immagini dipende dall’universalità dei mutamenti fisiologici che danno luogo a queste rappresentazioni mentali” (Hadfield, 1968, pg.256).
Ricerche più recenti (Hartmann, 1984; Kellerman, 1987), peraltro, hanno confutato alcune spiegazioni biologiche dell’incubo, che indicavano come fattore eziologico la deprivazione d’ossigeno o disturbi gastrici, rivolgendo invece l’attenzione ad alterazioni dei livelli di neurotrasmettitori quali la dopamina e acetilcolina.
Per concludere vorrei accennare brevemente alla teoria di Hartmann (1984), in cui il soddisfacimento di un desiderio non viene considerato un elemento centrale nel determinarsi dell’incubo.
L’autore, infatti, ha individuato nei limiti o confini più o meno netti che le persone hanno fra il sogno e la veglia, la fantasia e la realtà o il razionale e l’irrazionale, un fattore importante da cui dipende la frequenza e l’entità degli incubi.
I suggested that artists, on the one hand, and schizophrenics, on the other, have thin boundaries and that persons with frequent nightmares can be characterized as persons having unusually thin boundaries in a number of senses” [Ho suggerito che gli artisti, da una parte, e gli schizofrenici, dall’altra, abbiano restrizioni esigue e che le persone con frequenti incubi possono essere considerate come persone che hanno straordinariamente  pochi limiti in un grande numero di sensi] (Hartmann, 1984, pg.136). In particolare, i tipi di confini più o meno definiti cui l’autore fa riferimento, riguardano non solo quelli fra l’Io e l’Es, o la realtà e il sogno, ma comprendono anche confini come quelli interpersonali, di identità sessuale, o legati all’immagine corporea.
Le teorie proposte hanno un valore soprattutto storico, culturale e antropologico, ma spesso nel tentativo di offrire una spiegazione generale ed a-contestuale del fenomeno psichico “incubo” tendono a tralasciare il significato più specifico che questo acquista per il sognatore e il valore che il racconto di un incubo ha all’interno di una relazione ed a partire da eventi, cornici, situazioni, obiettivi ed interlocutori particolari.  La rappresentazione simbolica, sotto forma di racconto, di un qualsiasi evento psichico, infatti, nasce sempre all’interno di uno specifico contesto relazionale che, a partire dalle sue regole ed obiettivi, ne influenza profondamente la narrazione. Pensiamo, in particolare, a ciò che avviene nel colloquio clinico, dove un’infinità di emozioni, fantasie e ricordi si trasformano in una infinità di storie co-prodotte dalla coppia terapeutica in seduta. Il colloquio clinico diventa allora la cornice entro cui particolari emozioni, ricordi, fantasie, sogni o incubi si trasformano in racconti pensati e condivisi nella relazione tra lo psicologo ed il cliente. Da questo punto di vista, i mostri, le creature terrificanti o le situazioni angosciose che popolano i racconti entro il colloquio rappresentano emozioni temute dalla persona che acquistano “corpo” e rappresentabilità, nella loro forma paurosa, in modo tale da poter essere pensate, condivise, scambiate e decostruite all’interno della relazione terapeutica con lo psicologo.


Riferimenti bibliografici

-Bruner J., (1991): La costruzione narrativa della <<realtà>>, in Ammaniti, Stern (a cura di) Rappresentazioni e narrazioni, Laterza, Bari
-Ginzburg C.,(1986): Miti, emblemi e spie. Morfologia e storia, Einaudi, Torino
-Hadfield A., (1968): Sogni e incubi in psicologia, Giunti, Firenze
-Harré R., Secord P.F., (1972): The explanation of social behaviour,  Basil Blackwell, Oxford (tr. It. La spiegazione del comportamento sociale, Il Mulino, Bologna, 1974)
-Hartmann E., (1984): The nightmare. The Psychology and Biology of Terrifying Dreams, Basic Books, New York
-Jodelet D.(a cura di), (1989): Le rappresentazioni sociali, Liguori, Napoli
-Jones E., (1959): Psicoanalisi dell’incubo, Newton, Roma, tr. it. 1978
-Kavaler S., (1987): Nightmares and Object Relations Theory, in Kellerman H. The nightmare. Psychological and biological foundations, Columbia University Press, New York
 -Kellerman H., (1987): The nightmare. Psychological and biological foundations, Columbia University Press, New York
-Koch Candela M. C., (1998): Nel tempio nel bosco. Mito e fiaba nella conversazione terapeutica, Cortina, Milano
-Marcelli D., (1997): Psicopatologia del bambino, Masson, Milano

lunedì 30 maggio 2011

LA GESTIONE DELL’ANSIA E DELLO STRESS AL LAVORO



Non è la grande cosa che ti fa andare al
manicomio…
No, è la serie continua di piccoli accidenti
che ti fa andare al manicomio.
Non la morte del tuo amore,
ma il laccio della scarpa che ti si spezza
proprio all’ultimo momento”.

                                            C. Bukowski




La parola “Stress” è spesso usata, quasi indifferentemente per indicare:

§ Sia lo STIMOLO (l’evento critico ambientale);

§Sia la RISPOSTA (la reazione psico-fisiologica del soggetto sottoposto allo stimolo).


La terminologia scientifica, per maggior chiarezza, distingue invece fra:


          STRESSOR              l’agente stressante


           STRESS                  la reazione psico- fisiologica dell’individuo

Hans Selye (1936) studiando le risposte fisiologiche di animali da laboratorio, a seguito della somministrazione nel loro organismo di vari tipi di agenti nocivi, emerse un dato sorprendente… 
…la tendenza di queste cavie a manifestare un insieme assai omogeneo di reazioni e cambiamenti morfologici e patologici,  indipendentemente dal tipo di noxa utilizzato!
Questi agenti stressanti,
 per quanto differenti,
avevano un aspetto in comune:

Rappresentavano una NOVITA’ a cui l’organismo era chiamato ad adattarsi

Lo Stress o SINDROME GENERALE di ADATTAMENTO (SGA) è allora la condizione aspecifica e sempre uguale in cui si trova l’organismo quando deve adattarsi a qualsiasi richiesta (demand) proveniente dall’ambiente e con carattere di novità!

¨Reazione aspecifica visto che le modificazioni psico-fisiologiche dell’organismo sono simili e
prescindono dalla natura dello stressor che le ha provocate.


¨A qualsiasi richiesta indica che stressor molto diversi sono in grado di attivare una medesima
reazione dell’organismo.
Sono allora la DURATA e l’INTENSITA’ dello stimolo che denotano le sue potenzialità stressogene.
                              

La reazione di Stress o SGA si articola in tre fasi:

  1. Reazione di allarme che comprende la fase di shock rispetto allo stressor e un secondo momento reattivo di controshock;

  1. Fase di resistenza in cui l’organismo tenta di ristabilire l’equilibrio ed un nuovo adattamento;

  1. Esaurimento se lo sforzo adattivo non da risultati o intervengono nuovi stressor, l’individuo può non essere più in grado di reagire. 
Lo STRESS è pertanto una reazione psico-fisiologica

         ADATTIVA

         CARATTERISTICA DELLA VITA

         INEVITABILE

Tuttavia assume un significato patogenetico

         Quando è prodotta in modo troppo intenso;

         Per lunghi periodi di tempo;

         Non si accompagna a risposte efficaci.

Un buon modello di studio dello stress negli individui deve infatti considerare alcuni fattori:

         La presenza di stressor psicologici e sociali oltre che fisici e biologici;

         Il diverso significato che uno stressor ha nelle varie persone.


Nell’uomo la gamma complessa di funzioni:

Simbolico-emozionali

            Cognitive superiori (di astrazione ed elaborazione di stimoli e informazioni);

                        Affettivo-relazionali ;


Rendono il rapporto fra stressor e SGA meno scontato e prevedibile…


La CRISI è la condizione di disorganizzazione psicologica conseguente a:
1)      Stress particolarmente acuti e inaspettati;
2)      Stress meno intensi ma frequenti e ripetuti.

Il termine “Crisi” deriva etimologicamente dal greco “Krinein”: decidere, giudicare. Indica un occasione di scelta in una situazione nuova, di transizione per il soggetto…
che può tradursi:
  1. nel ripristino della situazione precedente;

  1.  in un miglior adattamento con l’acquisizione di equilibri più avanzati;

  1.  in una reazione disfunzionale persistente.


EUSTRESS indica una condizione in cui l’energia e l’attività del soggetto ben direzionate e  vi è sintonia fra obiettivi/scopi individuali e richieste ambientali.

DISTRESS indica una discrepanza fra progetti/azioni del soggetto e risorse/richieste ambientali.


Che rapporto hanno allora  lo stress e le condizioni di crisi con l’ansia?

L’ansia è espressione di uno stato di disequilibrio omeostatico (Bilancia Vegetativa) prolungato, prodotto da una sorta di conflitto–indecisione che si collocherebbe nell’area compresa fra il riconoscimento dello stimolo e la programmazione della risposta. Il vissuto soggettivo negativo presente nell’ansia serve infatti a sollecitare una risposta che riduca il livello di arousal-attivazione dell’organismo.
Una sorta di CRISI di DECISIONALITA’ nel complesso rapporto fra l’individuo  ed il contesto                     sociale di appartenenza.


Diamo allora un occhiata ai processi di adattamento dell’individuo nelle organizzazioni lavorative:
Le potenziali fonti di  stress lavorativo nelle organizzazioni sono
  1. Fonti intrinseche al lavoro:

         Condizioni fisiche (rumorosità, vibrazioni, illuminazione);

         Eccesso/carenza di lavoro;

         Pressione temporale (tempi incalzanti/morti);

  1. Ruolo nell’organizzazione:

         Stress da ambiguità del ruolo (poca chiarezza su obiettivi, potere, responsabilità e scopi del compito);

          Stress da conflitto di ruolo (richieste organizzative incompatibili con il ruolo);

          Stress da responsabilità del ruolo (nei confronti di cose o persone).

  1. Sviluppo di carriera:

         Mancanza di sicurezza del lavoro;

         Sovra-promozioni (con conseguente timore e senso di inadeguatezza);

         Retrocessione (con frustrazione, insoddisfazione, demotivazione);

         Ambizioni deluse.


  1. Relazioni al lavoro:

         Difficoltà relazionali con capi, subordinati o colleghi


         Difficoltà a delegare responsabilità, convenire su obiettivi.

  1. Cultura e clima organizzativo:

         Coinvolgimento o meno nei processi decisionali;

         Senso di appartenenza ed investimento aziendale;

         Cultura adempitiva dell’organizzazione.

 EFFETTI:

Individuali:
         Malattie coronariche;
         Umore depresso e insoddisfazione;
         Scarse aspirazioni professionali

Organizzativi:
         Assenteismo;
         Alto avvicendamento;
         Conflitti interni;
         Scarso controllo qualità.



venerdì 27 maggio 2011

IL PENSIERO NARRATIVO

1. ASPETTI GENERALI

Gli individui organizzano la loro esperienza, il ricordo degli avvenimenti, la conoscenza della propria cultura e attribuiscono significato ai comportamenti sociali prevalentemente attraverso racconti, storie, miti, ragioni per fare e per non fare… in generale sotto forma di narrazioni.
Narrare vuol dire creare storie che consentono di attribuire e trasmettere significati circa gli eventi umani.
La narrazione è uno strumento essenziale attraverso cui l’individuo può conoscere, organizzare e rendere comunicabile la sua esperienza personale all’interno di una relazione. È, in altri termini, un nodo vitale fra il dentro/psichico ed il fuori/ambiente, che consente all’individuo di definire e dare senso alle proprie e alle altrui esperienze, vissuti emotivi, intenzioni.
La narrazione pone, pertanto, in relazione il mondo canonico e consensuale della cultura con quello privato e idiosincratico delle credenze, dei desideri, delle fantasie dei singoli attori.

I racconti organizzano e rappresentano la realtà secondo principi e procedure specifiche e diverse rispetto a quelle che caratterizzano la conoscenza di tipo logico-scientifica, in particolare, mantenendo aperto il significato del discorso, lasciando ampio spazio alle possibilità interpretative dell’interlocutore e offrendo un criterio di lettura fondato sulla verosimiglianza più che sulla verificabilità.    
Nello specifico, la costruzione narrativa della realtà si fonda su 10 caratteristiche del racconto:
1)      Diacronicità narrativa: Il racconto è un esposizione di eventi che ricorrono nel tempo ed ha per sua natura una durata;
2)      Particolarità: Ci si riferisce a fatti ed avvenimenti particolari;
3)      Necessario riferimento a stati intenzionali: L’oggetto del racconto sono persone che operano in determinate situazioni secondo specifici desideri, piani ed intenzioni;
4)      Componibilità ermeneutica: Gli eventi del racconto non sono semplicemente selezionati e collocati in un certo ordine, ma devono essere fatti vivere come “funzioni” della struttura narrativa nel suo complesso;
5)      Canonicità e violazione: Una storia, perché valga la pena di essere raccontata, dovrà avere come oggetto il modo in cui un copione canonico implicito è stato violato;
6)      Referenzialità: Il senso di un racconto, preso nella sua interezza, può alterare la referenzialità delle singole parti che lo compongono nella misura in cui queste diventano funzioni dell’insieme;
7)      Appartenenza ad un genere: I generi letterari forniscono a scrittore e lettore schemi ampi e convenzionali, capaci di limitare il compito ermeneutico di dare senso agli accadimenti;
8)      Normatività: La storia fonda la sua raccontabilità sulla violazione di una aspettativa convenzionale;
9)      Sensibilità al contesto e negoziabilità: È la dipendenza della narrazione dal contesto in cui nasce a farne uno strumento di negoziazione culturale fondamentale;
10)  L’accumulazione narrativa: La creazione di una cultura si basa sulla capacità “locale” di accumulare storie di avvenimenti passati entro una struttura diacronica che ne consenta la continuità con il presente.  

Possiamo, allora, considerare il racconto anche come un modo di utilizzare il linguaggio in cui metafore, metonimie e sineddoche consentono un ampliamento dell’orizzonte delle possibilità e di esplorazione dell’intero ventaglio dei legami tra l’eccezionale e l’ordinario.

2. COME NASCE UN RACCONTO:
I MECCANISMI DI TRASFORMAZIONE NARRATIVA
Le trasformazioni narrative sono processi di elaborazione simbolica di eventi psichici, attraverso cui un emozione, un ricordo, un sogno diventano racconto, una rappresentazione comunicabile e condivisibile di un esperienza personale entro una relazione.
La rappresentazione di un evento psichico prende vita sempre all’interno di un contesto comunicativo che definisce il “come” della narrazione, ovvero le regole che presiedono alla messa in scena del racconto.
Accanto al concetto di narrazione, dunque, l’altro elemento centrale nel discorso è quello di contesto, inteso come principio ordinatore che orienta e da forma ai racconti dei due narratori.
Non esiste , infatti, una narrazione al di fuori di un contesto e di una relazione che definiscono le regole, gli obiettivi, i tempi e le forme di rappresentazione simbolica di qualsiasi esperienza privata.
Seguire i percorsi di trasformazione di un evento psichico significa allora osservare come la sua rappresentazione mentale diventa comunicabile all’interno di una relazione e di uno specifico contesto, grazie alle caratteristiche del medium linguistico che si utilizza (un racconto, un fumetto, una poesia, ecc.) e agli obiettivi dei narratori.

3. RACCONTARE SE STESSI
I racconti che la persona produce su se stessa possono essere considerati come un “testo del Sé” in cui eventi ed esperienze sono selezionati ed organizzati allo scopo di attribuire coerenza e continuità al Sé.
La caratteristica più evidente di questa autobiografia è rappresentata dal fatto che il soggetto vi agisce sia come attore che come narratore della storia.
Si possono così individuare due diverse prospettive temporali e narrative, definibili come il presente narrativo ed il passato narrato. Il primo è il tempo del discorso, il qui ed ora della narrazione, il secondo è il tempo della storia.
In genere la fine della storia coincide con la fusione dei due ordini temporali, quindi anche dell’attore con il narratore.
Iscrivendo la propria storia entro una struttura narrativa, sembra che l’ordine temporale si trasformi in un ordine causale o teleologico degli eventi (teleologia retrospettiva). In altre parole, l’ordine del tempo vissuto e del tempo narrato si fondono tra loro in maniera tale che il passato viene ordinato alla luce del presente.
Da qualunque punto io parta per tracciare la storia della mia vita, si tratta sempre di una narrazione che avviene in questo momento della mia vita.
Dalla fusione delle due prospettive temporali e narrative origina il tempo autobiografico, ossia il presente della storia della propria vita.

4. L’INCONTRO CON L’ALTRO
I racconti che prendono vita nel setting sono allora una funzione dell’interazione attuale fra i due “narratori” (pensiamo all’operatore e all’utente) e del campo emotivo inteso come matrice di infinite storie possibili.
Il campo viene inteso come lo spazio/tempo narrativo in cui nascono le storie che rappresentano l’alfabetizzazione delle emozioni presenti nella coppia.
Il concetto di campo risulta particolarmente interessante poiché evidenzia il ruolo che la situazione relazionale attuale ha nel suggerire ed organizzare le storie dei due narratori
È la specifica situazione relazionale vissuta nel setting che determina che cosa, in quel momento, i due narratori si racconteranno, con quali tempi ed attraverso quali modalità e generi narrativi.
Secondo questo punto di vista raccontando un esperienza personale il narratore rappresenta nella storia lo scenario emotivo vissuto nella relazione, nel momento in cui avviene il racconto.
Il racconto di un sogno, un ricordo o persino della trama di un film sono, allora, derivati narrativi che trasformano e rendono comunicabili le emozioni che in quel momento attraversano il campo relazionale.




-Baranger W., Baranger M., (1961): La situazione psicoanalitica come campo bipersonale, Raffaello Cortina, Milano, tr. it. 1990
-Brockmeier J., (1997): Il significato di “sviluppo” nella narrazione autobiografica, in Smorti A., Il Sé come testo, Giunti, Firenze
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giovedì 26 maggio 2011

GIOVANI E ALCOL: ALCUNE RIFLESSIONI

1. Uno sguardo alla letteratura

È tra il 18° e il 19° secolo che il mondo scientifico comincia ad occuparsi del complesso rapporto tra problemi alcolcorrelati e salute.
L’Alcologia rappresenta, infatti, un campo di ricerca piuttosto recente, se si pensa che l’uso (e abuso) di bevande alcoliche da parte dell’uomo risale a circa 30000 anni fa, ovvero alla scoperta delle tecniche di fermentazione.
Fattori come la minor durata media della vita, la bassa relazione tra consumo di alcol e incidenti sul lavoro (prima della Rivoluzione Industriale), l’assenza di incidenti stradali (prima della diffusione dei veicoli a motore), ma anche i minori rischi di emarginazione sociale nei contesti rurali, hanno determinato, nei secoli passati,  questa scarsa attenzione rivolta all’alcolismo e ai problemi ad esso correlati.
Sono le profonde trasformazioni dei “modi di vivere” avvenute negli ultimi due secoli che, in seguito a pressanti esigenze di natura giuridica, socio-sanitaria, culturale ed economica, hanno imposto la necessità di occuparsi dei “danni” causati dall’alcol.
La complessità del fenomeno oggetto di studio, peraltro, ha suggerito la teorizzazione di una pluralità di ipotesi eziologiche con differenti modalità d’approccio e trattamento.
Alcuni studi hanno, così, focalizzato l’attenzione sull’importanza dei fattori genetici, individuando una presunta familiarità nei confronti dell’abuso di alcol.
Ricerche di tipo psicologico, invece, hanno definito le caratteristiche della “personalità alcolista” e di quella “pre-alcolica”, nel tentativo di individuare quei fattori psicologici presumibilmente legati ad una condizione di rischio. Sono state, così, enunciate differenti teorie sul “perché psicologico” dell’abuso da parte del singolo, spesso, purtroppo, trascurando una adeguata comprensione dei significati sociali e culturali che accompagnano l’uso di sostanze alcoliche, nelle loro dimensioni rituali, relazionali e di iniziazione.
Altre ricerche, infine, hanno approfondito l’influenza svolta da fattori socio-ambientali e culturali sul bere smodato, sia individuando complessi legami fra condizioni di vita e modi di bere, sia distinguendo le varie culture in relazione all’atteggiamento “permissivo”, “ambivalente” o “proibizionista” da esse espresso nei confronti dell’alcol.
Modelli di studio di impronta sociologica hanno, così, individuato nel disadattamento sociale e nella precarietà delle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione, importanti fattori di rischio nell’abuso di sostanze alcoliche.
Tuttavia, sono in molti ormai a ritenere che i vari approcci specialistici allo studio dell’alcolismo, seppure ricchi di interessanti proposte, hanno spesso rappresentato una limitazione alla comprensione della complessità del fenomeno, favorendo lo sviluppo di alcuni presupposti teorici dimostratisi errati, primo fra tutti la convinzione che esista una causa ultima o una gerarchia di cause generalizzabili, in grado di spiegare il fenomeno in tutte le situazioni.
È indubbiamente più realistico ed euristicamente più vantaggioso considerare le problematiche alcolcorrelate a partire dal ruolo giocato da molteplici fattori socio-culturali, psicologici, psicopatologici e biologici, tra loro parzialmente o totalmente correlati a seconda del contesto e della situazione, in modi non certo prevedibili a priori.
In questo senso, il termine “alcolismo”, definito al singolare, può indurre nell’errore metodologico di ritenere che esista un'unica condizione problematica, generalizzabile a tutti gli individui. Data la multifattorialità della situazione, a nostro avviso, può essere assai più utile parlare di “alcolismi” o meglio ancora di “culture e stili di vita alcolcorrelati”.

  2. Adolescenti e alcol
In Italia il primo contatto con l’alcol avviene tra i 10 e i 15, se questo avviene all’interno della famiglia, tra i 16-17 anni, se la prima volta avviene all’interno del gruppo degli amici[1]. La ricerca ESPAD concorda con il dato riguardante l’età di iniziazione in famiglia, mentre indica come periodo critico, per il primo incontro con l’alcol fuori del contesto familiare, quello compreso tra i 13 e i 14 anni, cui fa seguito la prima ubriacatura, in un età leggermente più spostata nel tempo (15-16 anni)[2]
In Italia, dunque, il consumo di alcol in famiglia si verifica in età abbastanza precoce, in contesti legati alla tradizione, come feste e ricorrenze, tuttavia la precocità di iniziazione al consumo non è correlata con l’intensità del consumo in adolescenza, “bevitori moderati e forti non si differenziano sulla base dell’età del primo accostamento all’alcol”[3]. Questo dato non trova conferma in altre ricerche dove, invece, la precoce età di iniziazione viene messa in relazione con la probabilità di stabilizzazione del consumo[4].
Una differenza invece si può registrare a seconda del contesto di iniziazione, vale a dire se è rappresentato dalla famiglia o dagli amici: i ragazzi che hanno conosciuto l’alcol nel primo contesto, anche nel caso in cui questo incontro sia avvenuto in età precoce, continuano a bere con la famiglia, lo fanno moderatamente, e in generale sono bevitori moderati, mentre coloro che hanno iniziato con gli amici continuano a bere maggiormente con questi e contano un numero maggiore di forti bevitori: “sembra prevalere in questi ultimi uno stile nordico, caratterizzato dal bere in gruppo con gli amici grandi quantità d’alcol, contrapposto ad uno stile mediterraneo, caratterizzato invece dal bere durante i pasti o nelle feste quantità più moderate e maggiormente distribuite nel tempo”[5].
Emerge qui l’importante ruolo che gli adulti rivestono nel trasmettere modelli di comportamento relativi alla quantità d’alcol consumata e al modo di bere, infatti, quanto più l’abitudine al bere si apprende in un contesto familiare equilibrato e capace di trasmettere le norme del bere sociale, mantenendo il controllo sulla quantità, sulle circostanze e sulle modalità di assunzione, tanto minore è il pericolo di diventare etilisti. Al contrario, se i genitori, oltre ad essere astemi, condannano e contrastano in modo radicale l’uso di alcol da parte dei figli, è probabile che essi inizino a bere fuori del contesto famigliare e intraprendano stili di consumo problematici poiché non hanno appreso dagli adulti significativi le norme che regolano l’uso moderato[6].
Un altro fattore che riveste grande importanza nel rapporto che il soggetto costruisce con l’alcol è il sistema culturale al quale appartiene: la cultura di appartenenza stabilisce la norma vigente per individuare i comportamenti alcolici ritenuti accettati e quelli ritenuti devianti in quella data cultura, la cultura infatti “attraverso la definizione di ciò che è normale e di ciò che non lo è entra in gioco nel processo di alcolizzazione e nel problema dell’alcolismo”[7]. È noto, infatti, come in alcune culture il bere in compagnia rappresenti un comportamento non solo accettato ma addirittura stimolato e come, al contrario, ci sia riprovazione per il bevitore solitario, ma ancor di più nei confronti di chi si astiene in determinate situazioni collettive: in questi casi il rifiuto può portare all’isolamento dell’individuo, che con la sua condotta di astensione si discosta dalle norme accettate dal gruppo. Ciò si può comprendere se si riconosce all’alcol il valore simbolico relazionale che acquista all’interno del gruppo, dove riveste il ruolo di ‘cibo sociale’, vale a dire un cibo che viene consumato insieme ad altre persone e che per le stesse ha sia un valore nutrizionale che simbolico; esso viene usato per creare ed esprimere relazioni tra le persone e la sua preparazione e consumo vengono controllati da precise norme[8].
In riferimento agli atteggiamenti nei confronti del bere presenti nelle diverse culture, R. Lionetti distingue tra quattro diverse tipologie culturali: le culture astinenti, dove l’uso dell’alcol è proibito, anche nell’uso moderato. In queste culture i problemi legati all’abuso di alcol sono più frequenti poiché non esistono norme che regolano il consumo alcolico e il soggetto non ha, quindi, un riferimento sul quale costruire il proprio modello comportamentale. Le culture ambivalenti sono caratterizzate da atteggiamenti nei confronti dell’alcol incerti: talvolta il bere è fortemente valorizzato, altre volte è oggetto di esplicita disapprovazione; l’ambivalenza in cui viene a trovarsi l’individuo, in assenza di un preciso orientamento culturale, può portare a instaurare stili di consumo problematici. Le culture permissive hanno sviluppato norme, consuetudini e sanzioni relative al bere accettate dal gruppo: in queste culture è incoraggiata un’assunzione di alcol moderata, soprattutto in occasioni conviviali, mentre è fortemente sanzionata l’ubriachezza o altre forme di comportamento alcolico ‘deviante’. Infine, nelle culture ultrapermissive l’atteggiamento favorevole nei confronti del bere ‘normale’ si estende ad alcune forme di comportamento legate al bere smodato, ma che rimangono sempre nell’ambito dei comportamenti controllati.
Generalmente le culture permissive ed ultrapermissive hanno, in rapporto al numero complessivo dei bevitori, tassi di alcolismo inferiori rispetto alle culture astinenti e ambivalenti: ciò evidenzia la profonda influenza che il contesto culturale esercita nell’intraprendere un uso moderato o meno[9]
Il consumo di alcol in adolescenza può essere definito un comportamento ‘normativo’, nel senso che è più diffuso il bere rispetto al non bere: nell’indagine ESPAD i dati relativi all’uso nella vita di alcol dimostrano che l’89,4% ne fa uso (nel ’99 era l’86,5%); quelli relativi all’approvazione dell’uso di alcol riferiscono che il 74% del campione non disapprova bere uno o due bicchieri alla settimana, e il 20% non disapprova ubriacarsi una volta alla settimana. Per quanto riguarda la percezione del rischio legato al consumo di alcol, il 3.3% dei soggetti non avverte nessun rischio nel bere 5 o più bicchieri al giorno (questo dato è in aumento rispetto al ’99, quando la percentuale di soggetti che trovava assenza di rischio era il 2,8%). Si registra, invece, una notevole differenza tra maschi e femmine: i primi bevono più delle seconde, il rapporto è di 5 a 1, indipendentemente dall’età[10].
Si è visto che il consumo di alcol in età precoce è legato essenzialmente ai pasti, con il progredire dell’età aumenta la frequenza e l’entità delle assunzioni fuori pasto, anche se l’uso di alcolici in questa età è in genere moderato: “solo il 3% dei consumatori è definibile ‘problematico’ e solo una percentuale minima è etilista nel senso tradizionale del termine”[11]. Dalle ricerche emerge infatti un duplice stile di consumo dell’alcol, quello abitudinario moderato da una parte, e quello dell’abuso saltuario dall’altra, che si manifesta in occasione di momenti particolari come feste o in discoteca, in questo secondo caso i rischi sono legati soprattutto alle conseguenze dello stato di ubriachezza, come nel caso di incidenti stradali[12].
L’eccessivo consumo di alcol nel fine settimana, relativamente al gruppo dei forti bevitori  e di quelli che si ubriacano spesso, talvolta assolve ad una specifica funzione che è stata definita “strategia risolutiva emotiva”[13] di tipo immediato, cioè il consumo di alcol in questi casi serve alla fuga e all’evasione dalle difficoltà e responsabilità, ma è una strategia che si dimostra fallimentare in quanto la sbornia non risolve le difficoltà, ma anzi talvolta ne crea di nuove, soprattutto relazionali. Da questo comportamento può derivare una spirale viziosa, nella quale l’adolescente reitera il comportamento per sfuggire non solo alle vecchie difficoltà e alle nuove, che si sono create a causa del suo uso dell’alcol, ma anche alla constatazione dell’evidente insuccesso dei meccanismi difensivi che ha messo in atto[14].

2. Modelli di intervento 

La settorialità delle ricerche sull’alcolismo ha prodotto differenti modelli di trattamento, spesso esplicitamente rivolti a fasce selezionate di individui con particolari caratteristiche, trascurando così al possibilità di elaborare piani di intervento più articolati e complessi.
L’approccio di tipo medico, per esempio, tende in genere a considerare l’alcolismo come una sindrome, l’attenzione è posta sui sintomi, sui meccanismi biologici alterati e sugli organi danneggiati dall’abuso di alcol.
Il rischio del modello medico è chiaramente quello di far dipendere l’esistenza di un problema di alcolismo dalla presenza di una disfunzione organica alcolcorrelata.
Nelle ricerche psicologiche, come già accennato, l’interesse si è focalizzato soprattutto sulle caratteristiche di personalità ritenute a “rischio”. Dagli studi sono emersi problemi di autostima, di scarsa tolleranza dell’ansia, disturbi nella modulazione degli affetti e nella capacità di prendersi cura di se stessi, come elementi comuni alla popolazione alcolista.
Legati ad una condizione di abuso cronico di alcol vi sono spesso disturbi affettivi (depressione), disturbi d’ansia (attacchi di panico, fobie) e non di rado disturbi di personalità di vario tipo (antisociale, borderline, istrionico, dipendente). In questi casi l’alcol può diventare una forma di “auto-terapia”, ricercata ora per il suo dubbio effetto ansiolitico e calmante, ora per il suo potere disinibente.
La psicologia individuale, nelle sue varie scuole, pur fornendo importanti linee guida nel trattamento psicologico dei soggetti con problemi alcolcorrelati, ha sofferto di ciò che vari autori hanno definito lo “stereotipo individualista”, ovvero un eccessiva attenzione rivolta all’individuo e alle sue caratteristiche decontestualizzate.
Gli approcci sistemico-relazionali hanno in parte corretto questo limite, allargando il setting di analisi dall’individuo ad unità più complesse quali la famiglia o il gruppo dei pari.
In famiglie problematiche, di frequente, l’alcol sposta l’attenzione dalle difficoltà relazionali del gruppo sul comportamento problematico del singolo, svolgendo così una pericolosa funzione protettiva dai rischi di frantumazione familiare e omeostatica rispetto alle possibilità di cambiamento.
Comune ai vari modelli psicologici resta, comunque, il fatto di rivolgersi in particolare ad individui e gruppi con gravi problematiche affettive alcolcorrelate, motivati ad intraprendere un lavoro di tipo psicologico o psicoterapeutico.
Gli approcci di tipo sociologico, infine, promuovono una politica di assistenza e reinserimento sociale particolarmente adatta ad individui in cui l’abuso di alcol è legato a condizioni di vita disagiate.
Questi brevi accenni alla letteratura sull’alcolismo ci sono utili per riflettere su due aspetti critici, a nostro avviso, condivisi dai vari orientamenti delineati.
Anzitutto, ogni modello di intervento, con le ipotesi teoriche ed eziologiche che lo sostengono, finisce troppo spesso per rispondere ai bisogni e ai problemi solo di specifiche e ristrette fasce di individui della più vasta ed eterogenea popolazione con problemi alcolcorrelati.
Per inciso, solo un metodo di trattamento come i gruppi di auto-aiuto di Alcolisti Anonimi tende a rivolgersi ai bisogni di fasce più composite di soggetti, anche se come requisito necessario pone quello di una manifesta consapevolezza e di una esplicita dichiarazione da parte dei partecipanti del loro disagio (“ammettiamo la nostra impotenza di fronte all’alcol e che le nostre vite sono divenute incontrollabili”).
L’altro limite comune riguarda la difficoltà mostrata dai vari orientamenti nel farsi carico delle domande inespresse e per riflesso di un innovativa politica di promozione della salute/prevenzione del disagio alcolcorrelato.
Quest’ultimo è l’aspetto che a noi interessa particolarmente, poiché contiene gli obiettivi e delinea i confini del modello di conoscenza ed intervento che proponiamo, nel quale un’attenta considerazione delle dimensioni culturali ed affettive che legano i partecipanti allo specifico contesto sociale di interesse e riferimento si declina nell’utilizzo di una molteplicità di strumenti di intervento rivolti al gruppo dei pari, ai sistemi di appartenenze istituzionali, alle famiglie ed ai singoli soggetti con l’obbiettivo di spostare l’ottica d’analisi dal singolo soggetto – “il consumatore di alcol” – al fenomeno sociale dell’alcolismo ed alle dimensioni culturali che lo sostengono e alimentano entro specifici contesti di convivenza e interazione.



[1] Bonino S., Il rischio in adolescenza. Bacco in T-shirt, in “Psicologia Contemporanea”, 150, 1998.
[2] ESPAD 2000, op. cit.
[3] Bonino S, Bacco in T-shirt, op. cit., p. 20.
[4] Cfr. Baraldi C., Ravenna M., op. cit.
[5] Bonino S., op. cit., p. 20.
[6] Ravenna M., Adolescenti e droga. Percorsi e processi socio-psicologici del consumo, Il Mulino, Bologna, 1993.
[7] Cfr. Lionetti R., Per un’antropologia del bere: norma, devianza e controllo sociale, in Rolli A., Cottino A., Le culture dell’alcool, Franco Angeli, Milano, 1992, p. 132.
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] Ravenna M., in Palmonari A. (a cura di), op. cit.
[11] Ravenna M., Psicologia delle tossicodipendenze, Il Mulino, Bologna, 1997, p .49.
[12]  Cfr. Maggiolini A., in Giori F. (a cura di), op. cit.
[13] Labouvie E., cit. in Bonino S., op. cit.
[14] Ibidem.