giovedì 26 maggio 2011

GIOVANI E ALCOL: ALCUNE RIFLESSIONI

1. Uno sguardo alla letteratura

È tra il 18° e il 19° secolo che il mondo scientifico comincia ad occuparsi del complesso rapporto tra problemi alcolcorrelati e salute.
L’Alcologia rappresenta, infatti, un campo di ricerca piuttosto recente, se si pensa che l’uso (e abuso) di bevande alcoliche da parte dell’uomo risale a circa 30000 anni fa, ovvero alla scoperta delle tecniche di fermentazione.
Fattori come la minor durata media della vita, la bassa relazione tra consumo di alcol e incidenti sul lavoro (prima della Rivoluzione Industriale), l’assenza di incidenti stradali (prima della diffusione dei veicoli a motore), ma anche i minori rischi di emarginazione sociale nei contesti rurali, hanno determinato, nei secoli passati,  questa scarsa attenzione rivolta all’alcolismo e ai problemi ad esso correlati.
Sono le profonde trasformazioni dei “modi di vivere” avvenute negli ultimi due secoli che, in seguito a pressanti esigenze di natura giuridica, socio-sanitaria, culturale ed economica, hanno imposto la necessità di occuparsi dei “danni” causati dall’alcol.
La complessità del fenomeno oggetto di studio, peraltro, ha suggerito la teorizzazione di una pluralità di ipotesi eziologiche con differenti modalità d’approccio e trattamento.
Alcuni studi hanno, così, focalizzato l’attenzione sull’importanza dei fattori genetici, individuando una presunta familiarità nei confronti dell’abuso di alcol.
Ricerche di tipo psicologico, invece, hanno definito le caratteristiche della “personalità alcolista” e di quella “pre-alcolica”, nel tentativo di individuare quei fattori psicologici presumibilmente legati ad una condizione di rischio. Sono state, così, enunciate differenti teorie sul “perché psicologico” dell’abuso da parte del singolo, spesso, purtroppo, trascurando una adeguata comprensione dei significati sociali e culturali che accompagnano l’uso di sostanze alcoliche, nelle loro dimensioni rituali, relazionali e di iniziazione.
Altre ricerche, infine, hanno approfondito l’influenza svolta da fattori socio-ambientali e culturali sul bere smodato, sia individuando complessi legami fra condizioni di vita e modi di bere, sia distinguendo le varie culture in relazione all’atteggiamento “permissivo”, “ambivalente” o “proibizionista” da esse espresso nei confronti dell’alcol.
Modelli di studio di impronta sociologica hanno, così, individuato nel disadattamento sociale e nella precarietà delle condizioni di vita di larghe fasce della popolazione, importanti fattori di rischio nell’abuso di sostanze alcoliche.
Tuttavia, sono in molti ormai a ritenere che i vari approcci specialistici allo studio dell’alcolismo, seppure ricchi di interessanti proposte, hanno spesso rappresentato una limitazione alla comprensione della complessità del fenomeno, favorendo lo sviluppo di alcuni presupposti teorici dimostratisi errati, primo fra tutti la convinzione che esista una causa ultima o una gerarchia di cause generalizzabili, in grado di spiegare il fenomeno in tutte le situazioni.
È indubbiamente più realistico ed euristicamente più vantaggioso considerare le problematiche alcolcorrelate a partire dal ruolo giocato da molteplici fattori socio-culturali, psicologici, psicopatologici e biologici, tra loro parzialmente o totalmente correlati a seconda del contesto e della situazione, in modi non certo prevedibili a priori.
In questo senso, il termine “alcolismo”, definito al singolare, può indurre nell’errore metodologico di ritenere che esista un'unica condizione problematica, generalizzabile a tutti gli individui. Data la multifattorialità della situazione, a nostro avviso, può essere assai più utile parlare di “alcolismi” o meglio ancora di “culture e stili di vita alcolcorrelati”.

  2. Adolescenti e alcol
In Italia il primo contatto con l’alcol avviene tra i 10 e i 15, se questo avviene all’interno della famiglia, tra i 16-17 anni, se la prima volta avviene all’interno del gruppo degli amici[1]. La ricerca ESPAD concorda con il dato riguardante l’età di iniziazione in famiglia, mentre indica come periodo critico, per il primo incontro con l’alcol fuori del contesto familiare, quello compreso tra i 13 e i 14 anni, cui fa seguito la prima ubriacatura, in un età leggermente più spostata nel tempo (15-16 anni)[2]
In Italia, dunque, il consumo di alcol in famiglia si verifica in età abbastanza precoce, in contesti legati alla tradizione, come feste e ricorrenze, tuttavia la precocità di iniziazione al consumo non è correlata con l’intensità del consumo in adolescenza, “bevitori moderati e forti non si differenziano sulla base dell’età del primo accostamento all’alcol”[3]. Questo dato non trova conferma in altre ricerche dove, invece, la precoce età di iniziazione viene messa in relazione con la probabilità di stabilizzazione del consumo[4].
Una differenza invece si può registrare a seconda del contesto di iniziazione, vale a dire se è rappresentato dalla famiglia o dagli amici: i ragazzi che hanno conosciuto l’alcol nel primo contesto, anche nel caso in cui questo incontro sia avvenuto in età precoce, continuano a bere con la famiglia, lo fanno moderatamente, e in generale sono bevitori moderati, mentre coloro che hanno iniziato con gli amici continuano a bere maggiormente con questi e contano un numero maggiore di forti bevitori: “sembra prevalere in questi ultimi uno stile nordico, caratterizzato dal bere in gruppo con gli amici grandi quantità d’alcol, contrapposto ad uno stile mediterraneo, caratterizzato invece dal bere durante i pasti o nelle feste quantità più moderate e maggiormente distribuite nel tempo”[5].
Emerge qui l’importante ruolo che gli adulti rivestono nel trasmettere modelli di comportamento relativi alla quantità d’alcol consumata e al modo di bere, infatti, quanto più l’abitudine al bere si apprende in un contesto familiare equilibrato e capace di trasmettere le norme del bere sociale, mantenendo il controllo sulla quantità, sulle circostanze e sulle modalità di assunzione, tanto minore è il pericolo di diventare etilisti. Al contrario, se i genitori, oltre ad essere astemi, condannano e contrastano in modo radicale l’uso di alcol da parte dei figli, è probabile che essi inizino a bere fuori del contesto famigliare e intraprendano stili di consumo problematici poiché non hanno appreso dagli adulti significativi le norme che regolano l’uso moderato[6].
Un altro fattore che riveste grande importanza nel rapporto che il soggetto costruisce con l’alcol è il sistema culturale al quale appartiene: la cultura di appartenenza stabilisce la norma vigente per individuare i comportamenti alcolici ritenuti accettati e quelli ritenuti devianti in quella data cultura, la cultura infatti “attraverso la definizione di ciò che è normale e di ciò che non lo è entra in gioco nel processo di alcolizzazione e nel problema dell’alcolismo”[7]. È noto, infatti, come in alcune culture il bere in compagnia rappresenti un comportamento non solo accettato ma addirittura stimolato e come, al contrario, ci sia riprovazione per il bevitore solitario, ma ancor di più nei confronti di chi si astiene in determinate situazioni collettive: in questi casi il rifiuto può portare all’isolamento dell’individuo, che con la sua condotta di astensione si discosta dalle norme accettate dal gruppo. Ciò si può comprendere se si riconosce all’alcol il valore simbolico relazionale che acquista all’interno del gruppo, dove riveste il ruolo di ‘cibo sociale’, vale a dire un cibo che viene consumato insieme ad altre persone e che per le stesse ha sia un valore nutrizionale che simbolico; esso viene usato per creare ed esprimere relazioni tra le persone e la sua preparazione e consumo vengono controllati da precise norme[8].
In riferimento agli atteggiamenti nei confronti del bere presenti nelle diverse culture, R. Lionetti distingue tra quattro diverse tipologie culturali: le culture astinenti, dove l’uso dell’alcol è proibito, anche nell’uso moderato. In queste culture i problemi legati all’abuso di alcol sono più frequenti poiché non esistono norme che regolano il consumo alcolico e il soggetto non ha, quindi, un riferimento sul quale costruire il proprio modello comportamentale. Le culture ambivalenti sono caratterizzate da atteggiamenti nei confronti dell’alcol incerti: talvolta il bere è fortemente valorizzato, altre volte è oggetto di esplicita disapprovazione; l’ambivalenza in cui viene a trovarsi l’individuo, in assenza di un preciso orientamento culturale, può portare a instaurare stili di consumo problematici. Le culture permissive hanno sviluppato norme, consuetudini e sanzioni relative al bere accettate dal gruppo: in queste culture è incoraggiata un’assunzione di alcol moderata, soprattutto in occasioni conviviali, mentre è fortemente sanzionata l’ubriachezza o altre forme di comportamento alcolico ‘deviante’. Infine, nelle culture ultrapermissive l’atteggiamento favorevole nei confronti del bere ‘normale’ si estende ad alcune forme di comportamento legate al bere smodato, ma che rimangono sempre nell’ambito dei comportamenti controllati.
Generalmente le culture permissive ed ultrapermissive hanno, in rapporto al numero complessivo dei bevitori, tassi di alcolismo inferiori rispetto alle culture astinenti e ambivalenti: ciò evidenzia la profonda influenza che il contesto culturale esercita nell’intraprendere un uso moderato o meno[9]
Il consumo di alcol in adolescenza può essere definito un comportamento ‘normativo’, nel senso che è più diffuso il bere rispetto al non bere: nell’indagine ESPAD i dati relativi all’uso nella vita di alcol dimostrano che l’89,4% ne fa uso (nel ’99 era l’86,5%); quelli relativi all’approvazione dell’uso di alcol riferiscono che il 74% del campione non disapprova bere uno o due bicchieri alla settimana, e il 20% non disapprova ubriacarsi una volta alla settimana. Per quanto riguarda la percezione del rischio legato al consumo di alcol, il 3.3% dei soggetti non avverte nessun rischio nel bere 5 o più bicchieri al giorno (questo dato è in aumento rispetto al ’99, quando la percentuale di soggetti che trovava assenza di rischio era il 2,8%). Si registra, invece, una notevole differenza tra maschi e femmine: i primi bevono più delle seconde, il rapporto è di 5 a 1, indipendentemente dall’età[10].
Si è visto che il consumo di alcol in età precoce è legato essenzialmente ai pasti, con il progredire dell’età aumenta la frequenza e l’entità delle assunzioni fuori pasto, anche se l’uso di alcolici in questa età è in genere moderato: “solo il 3% dei consumatori è definibile ‘problematico’ e solo una percentuale minima è etilista nel senso tradizionale del termine”[11]. Dalle ricerche emerge infatti un duplice stile di consumo dell’alcol, quello abitudinario moderato da una parte, e quello dell’abuso saltuario dall’altra, che si manifesta in occasione di momenti particolari come feste o in discoteca, in questo secondo caso i rischi sono legati soprattutto alle conseguenze dello stato di ubriachezza, come nel caso di incidenti stradali[12].
L’eccessivo consumo di alcol nel fine settimana, relativamente al gruppo dei forti bevitori  e di quelli che si ubriacano spesso, talvolta assolve ad una specifica funzione che è stata definita “strategia risolutiva emotiva”[13] di tipo immediato, cioè il consumo di alcol in questi casi serve alla fuga e all’evasione dalle difficoltà e responsabilità, ma è una strategia che si dimostra fallimentare in quanto la sbornia non risolve le difficoltà, ma anzi talvolta ne crea di nuove, soprattutto relazionali. Da questo comportamento può derivare una spirale viziosa, nella quale l’adolescente reitera il comportamento per sfuggire non solo alle vecchie difficoltà e alle nuove, che si sono create a causa del suo uso dell’alcol, ma anche alla constatazione dell’evidente insuccesso dei meccanismi difensivi che ha messo in atto[14].

2. Modelli di intervento 

La settorialità delle ricerche sull’alcolismo ha prodotto differenti modelli di trattamento, spesso esplicitamente rivolti a fasce selezionate di individui con particolari caratteristiche, trascurando così al possibilità di elaborare piani di intervento più articolati e complessi.
L’approccio di tipo medico, per esempio, tende in genere a considerare l’alcolismo come una sindrome, l’attenzione è posta sui sintomi, sui meccanismi biologici alterati e sugli organi danneggiati dall’abuso di alcol.
Il rischio del modello medico è chiaramente quello di far dipendere l’esistenza di un problema di alcolismo dalla presenza di una disfunzione organica alcolcorrelata.
Nelle ricerche psicologiche, come già accennato, l’interesse si è focalizzato soprattutto sulle caratteristiche di personalità ritenute a “rischio”. Dagli studi sono emersi problemi di autostima, di scarsa tolleranza dell’ansia, disturbi nella modulazione degli affetti e nella capacità di prendersi cura di se stessi, come elementi comuni alla popolazione alcolista.
Legati ad una condizione di abuso cronico di alcol vi sono spesso disturbi affettivi (depressione), disturbi d’ansia (attacchi di panico, fobie) e non di rado disturbi di personalità di vario tipo (antisociale, borderline, istrionico, dipendente). In questi casi l’alcol può diventare una forma di “auto-terapia”, ricercata ora per il suo dubbio effetto ansiolitico e calmante, ora per il suo potere disinibente.
La psicologia individuale, nelle sue varie scuole, pur fornendo importanti linee guida nel trattamento psicologico dei soggetti con problemi alcolcorrelati, ha sofferto di ciò che vari autori hanno definito lo “stereotipo individualista”, ovvero un eccessiva attenzione rivolta all’individuo e alle sue caratteristiche decontestualizzate.
Gli approcci sistemico-relazionali hanno in parte corretto questo limite, allargando il setting di analisi dall’individuo ad unità più complesse quali la famiglia o il gruppo dei pari.
In famiglie problematiche, di frequente, l’alcol sposta l’attenzione dalle difficoltà relazionali del gruppo sul comportamento problematico del singolo, svolgendo così una pericolosa funzione protettiva dai rischi di frantumazione familiare e omeostatica rispetto alle possibilità di cambiamento.
Comune ai vari modelli psicologici resta, comunque, il fatto di rivolgersi in particolare ad individui e gruppi con gravi problematiche affettive alcolcorrelate, motivati ad intraprendere un lavoro di tipo psicologico o psicoterapeutico.
Gli approcci di tipo sociologico, infine, promuovono una politica di assistenza e reinserimento sociale particolarmente adatta ad individui in cui l’abuso di alcol è legato a condizioni di vita disagiate.
Questi brevi accenni alla letteratura sull’alcolismo ci sono utili per riflettere su due aspetti critici, a nostro avviso, condivisi dai vari orientamenti delineati.
Anzitutto, ogni modello di intervento, con le ipotesi teoriche ed eziologiche che lo sostengono, finisce troppo spesso per rispondere ai bisogni e ai problemi solo di specifiche e ristrette fasce di individui della più vasta ed eterogenea popolazione con problemi alcolcorrelati.
Per inciso, solo un metodo di trattamento come i gruppi di auto-aiuto di Alcolisti Anonimi tende a rivolgersi ai bisogni di fasce più composite di soggetti, anche se come requisito necessario pone quello di una manifesta consapevolezza e di una esplicita dichiarazione da parte dei partecipanti del loro disagio (“ammettiamo la nostra impotenza di fronte all’alcol e che le nostre vite sono divenute incontrollabili”).
L’altro limite comune riguarda la difficoltà mostrata dai vari orientamenti nel farsi carico delle domande inespresse e per riflesso di un innovativa politica di promozione della salute/prevenzione del disagio alcolcorrelato.
Quest’ultimo è l’aspetto che a noi interessa particolarmente, poiché contiene gli obiettivi e delinea i confini del modello di conoscenza ed intervento che proponiamo, nel quale un’attenta considerazione delle dimensioni culturali ed affettive che legano i partecipanti allo specifico contesto sociale di interesse e riferimento si declina nell’utilizzo di una molteplicità di strumenti di intervento rivolti al gruppo dei pari, ai sistemi di appartenenze istituzionali, alle famiglie ed ai singoli soggetti con l’obbiettivo di spostare l’ottica d’analisi dal singolo soggetto – “il consumatore di alcol” – al fenomeno sociale dell’alcolismo ed alle dimensioni culturali che lo sostengono e alimentano entro specifici contesti di convivenza e interazione.



[1] Bonino S., Il rischio in adolescenza. Bacco in T-shirt, in “Psicologia Contemporanea”, 150, 1998.
[2] ESPAD 2000, op. cit.
[3] Bonino S, Bacco in T-shirt, op. cit., p. 20.
[4] Cfr. Baraldi C., Ravenna M., op. cit.
[5] Bonino S., op. cit., p. 20.
[6] Ravenna M., Adolescenti e droga. Percorsi e processi socio-psicologici del consumo, Il Mulino, Bologna, 1993.
[7] Cfr. Lionetti R., Per un’antropologia del bere: norma, devianza e controllo sociale, in Rolli A., Cottino A., Le culture dell’alcool, Franco Angeli, Milano, 1992, p. 132.
[8] Ibidem
[9] Ibidem
[10] Ravenna M., in Palmonari A. (a cura di), op. cit.
[11] Ravenna M., Psicologia delle tossicodipendenze, Il Mulino, Bologna, 1997, p .49.
[12]  Cfr. Maggiolini A., in Giori F. (a cura di), op. cit.
[13] Labouvie E., cit. in Bonino S., op. cit.
[14] Ibidem.

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