lunedì 16 maggio 2011

LA DEPRESSIONE: Uno sguardo all'adolescenza come momento a rischio (2° file)


Capitolo 2. La depressione in adolescenza

2.1 Caratteristiche della depressione adolescenziale

L’adolescenza come tappa di sviluppo di ogni individuo è spesso descritta in termini che sarebbero altrettanto ben utilizzabili per descrivere una depressione o lotta contro la depressione. Tristezza, agitazione e collera sono spesso alcuni di questi termini così come pessimismo o senso di inutilità. Anche prescindendo da situazioni cliniche la realtà quotidiana ci offre esempi di adolescenti che passano ore sdraiati o seduti pronti a provare forti passioni per cercare di far fronte ad una profonda noia o ad un diffuso disinteresse. Sono presenti spesso sensi di colpa o di vergogna, di delusione e di isolamento, ma anche momenti in cui si alternano disistima di sé e trionfante onnipotenza.
L'adolescenza è un epoca della vita nella quale, ciascuno di noi, secondo tempi e intensità diverse, che variano da individuo a individuo, attraversa episodi di tristezza, di noia, di timidezza, di paura, di angoscia. Anche durante l'infanzia sono presenti nel bambino questi sentimenti, ma in adolescenza l'esperienza di tutti concorda su questo punto: oltre ad essere l'età dei primi amori, dell'amicizia, degli ideali, l'adolescenza è anche portatrice di depressione.
Ma la presenza frequente della tristezza in adolescenza non va scambiata con la depressione come malattia.
È evidente che l’adolescenza non possa riassumersi in questo stato ed i cambiamenti di umore che la caratterizzano sono ben noti, ma la maggioranza degli adolescenti presenta spesso un’affettività depressiva abbastanza stabile.
Esiste per l’adolescenza un contrasto significativo tra la frequenza dei riferimenti psicologici e psicopatologici alla presenza di tratti depressivi e la relativa rarità con cui si parla di depressione in quanto vera e propria diagnosi clinica.
Sull’incidenza delle manifestazioni depressive in adolescenza esistono pareri contrastanti riassumibili in tre diverse posizioni. In base alla prima la depressione, in quanto entità clinica definita nei termini in cui lo è per l’adulto, è rara nel corso dell’adolescenza. In base alla seconda posizione in adolescenza la depressione si manifesta soprattutto sotto la forma di equivalenti (il che rimanda al concetto di depressione mascherata). Infine, i sostenitori della terza posizione, affermano che la depressione, ivi compresa la forma bipolare, è molto meno rara di quanto non si constati abitualmente.
Studi sull’epidemiologia e osservazioni longitudinali della depressione hanno prodotto elementi a sostegno della tesi che questa può apparire precocemente, e che spesso può evolvere in un disturbo cronico, contrastando il luogo comune che vede l’infanzia e l’adolescenza come periodi di spensieratezza e buonumore (Keller, Shapiro, 1982; Kovacs, Akiscal, Gatsonis, et al., 1993).
La prevalenza, in un dato momento, della depressione nell’adolescente varia, secondo gli studi dal 3 al 7,2% della popolazione generale di età compresa fra 12 e 23 anni (Guillaud-Bataille, Cialdella, 1993, in Braconnier, 2002). Rispetto ai dati relativi alla depressione dell'adulto nella popolazione generale, il fenomeno sembra dunque sottostimato in adolescenza. La letteratura (Ammaniti, 2002; Braconnier, 2002) né individua diversi motivi. Anzitutto, la difficoltà di fare una diagnosi categoriale stabile, in un periodo dell'esistenza durante il quale si mescolano atteggiamenti fluttuanti, conseguenti al processo di sviluppo, accanto alle manifestazioni caratteristiche dello stato psicopatologico. Raramente, infatti, si manifesta in adolescenza un quadro con tutti i sintomi tipici della depressione quale si palesa negli adulti. Questo rende difficile stabilire se i tratti riscontrati sono solo manifestazioni transitorie del tumultuoso periodo di passaggio o spie di una patologia depressiva in atto.
L’aver fatto riferimento per molti anni al concetto troppo generale di “crisi”, derivato dai primi lavori psicoanalitici sull'adolescenza, inoltre, ha reso difficile definire un processo psicopatologico più preciso. Altra ragione è legata, infine, alle diverse manifestazioni di richiesta di aiuto che possono nascondere un disagio depressivo. Si pensi, per esempio, agli incidenti a ripetizione che si ritrovano in modo particolare fra gli adolescenti che presentano una depressività, o anche una vera e propria depressione, ma anche le fughe, le idee di suicidio e i tentativi di suicidio, il nervosismo, le diverse lamentele di dolori corporei, le condotte delinquenziali,  bulimiche o anoressiche, di dipendenza e le difficoltà scolastiche che si ritrovano significativamente associati con l'umore depressivo.

2.2 Inquadramento diagnostico

Secondo vari autori (Williamson et al. 2000; Flament et al. 2001; Ammaniti, 2002) in adolescenza non sono presenti quadri sintomatici della depressione maggiore e della distimia dell’adulto, ma un insieme di sintomi che pongono in primo piano l’aggressività ed il rallentamento ideativo.
Jouvent et al. (1987, in Braconnier, 2002) hanno studiato la struttura dell'umore depressivo, confrontando una popolazione di adolescenti ritenuti depressi ed un’altra di adulti depressi. L'analisi delle componenti principali ha evidenziato tre fattori: la disforia, la tristezza manifesta e l’appiattimento affettivo. È risultato evidente come la disforia fosse molto più frequentemente riscontrata fra gli adolescenti che fra gli adulti e che, inversamente, l’appiattimento affettivo caratterizzasse di più la depressione dell'adulto rispetto a quella dell'adolescente.
Possiamo affermare che il nucleo affettivo depressivo negli adolescenti si caratterizza per un umore nettamente più reattivo di quello dell’adulto. Il concetto di reattività o meno dell'umore rappresenta uno degli indici più importanti che differenziano quella che Liebowitz et al. (1988, in Braconnier, 2002) hanno definito la depressione atipica versus la depressione endogena.
In particolare, la depressione atipica è caratterizzata da umore reattivo, ipersensibilità interpersonale, appetito accresciuto con relativo aumento di peso e da una particolare accentuazione dei sintomi la sera.
Secondo Braconnier (2002) la semiologia differenziale della depressione dell’adolescente legittima l’ipotesi di un maggior riscontro di questa forma di depressione atipica durante questa fase dello sviluppo.
In particolare, fra i sintomi che con chiarezza possono identificare una depressione in adolescenza, la letteratura segnala:
·       Rallentamento psicomotorio (motricità, ideazione, espressione verbale, percezione del tempo);
·       Disturbi fisici, soprattutto anoressia nervosa e ipersonnia;
·       Stati emotivi di tristezza, melanconia, pessimismo, disperazione;
·       Sentimento di noia e mancanza di interesse (anedonia);
·       Stanchezza fisica e senso di fatica (astenia);
·       Senso di impotenza ed inefficacia, nella convinzione che non ci sia nulla che serva ed ogni sforzo risulti vano;
·       Passaggio all’atto auto ed etero-aggressivo (assunzione di droghe ed alcolici, eccesso di cibo, comportamenti violenti, tentativi di suicidio).
Rispetto all’adulto depresso nella depressione adolescenziale si notano naturalmente alcune differenze. L’adolescente, infatti, non presenta praticamente mai una “maschera depressiva”, quindi, il suo viso non ha quasi mai un aspetto depressivo: la depressione non è tradita dai suoi tratti. Fanno parte dei sintomi emozionali anche l’anedonia, che si configura come uno dei sintomi diagnostici principali nei disturbi depressivi (Carlson e Kashani, 1988) e che si riferisce alla perdita della risposta di piacere (il ragazzo appare annoiato, indifferente); la tendenza al pianto, dove questo non è legato a eventi ambientali; la perdita di allegria, il non sentirsi amati, e l’autocommiserazione (Stark, 1996). L’adolescente può affermare che si annoia, che ha la “testa vuota”, che “ne ha abbastanza”, ma raramente si dichiara triste e ancora meno depresso, almeno non volontariamente. Cerca spesso spontaneamente un adulto comprensivo, empatico, rincuorante, ha la tendenza a rifiutare l’aiuto che gli è offerto perché è più pronto a dichiarare di non aver bisogno di niente se si porge tale aiuto.Un diverso sintomo del disturbo dell’umore che può sostituire la tristezza è la rabbia, che molto spesso è presente negli adolescenti/bambini depressi (Kovacs et al.,  1993; Carlson e Kashani, 1988). Oltre ad essere molto presente, la rabbia è un sintomo tra i più resistenti al cambiamento terapeutico (Stark, Kaslow, Reynolds, Kelley, 1990). La gravità di questo sentimento va dalla semplice irritabilità, a un senso di insopportabilità dello stato d’animo di rabbia, fino a giungere a pensieri omicidi. Un modo per misurare la gravità del sintomo è rapportarlo all’ambiente: minori sono i legami con l’ambiente, maggiore sarà la gravità (Stark, 1996). Tristezza e abbassamento del tono dell'umore sono esperienze che tutti provano. E' necessario pertanto distinguere i sintomi specifici della patologia depressiva da simili condizioni di vita. Per valutare la presenza di un disturbo dovrebbero essere soddisfatti tutti i criteri elencati (da A ad E).
Un altro aspetto di particolare importanza è quello delle autovalutazioni negative. L’adolescente tende a valutare negativamente le sue prestazioni e le sue capacità; in questo modo l’autostima si abbassa notevolmente. Gli ambiti autodescrittivi in cui la bassa autostima si fa notare nella maggior parte dei casi sono: l’intelligenza, l’aspetto fisico, la personalità, il profitto scolastico, l’abilità fisica (Stark, 1996).
Una particolare attenzione nei casi di depressione adolescenziale va posta alla diagnosi differenziale considerando la significativa comorbidità della depressione con disturbi d’ansia, disturbi del comportamento e disturbi oppositivi, così come sono definiti nel DSM IV.
Alcuni sintomi come la distraibilità e la bassa tolleranza alle frustrazioni possono presentarsi anche nel disturbo da deficit dell'attenzione/iperattività. I due disturbi possono presentarsi anche associati. Seguendo quanto consiglia il DSM, il clinico esperto dovrà porre particolare attenzione nel non sovradiagnosticare un disturbo depressivo maggiore in bambini/adolescenti con deficit dell'attenzione/iperattività che presentano un'alterazione dell'umore con irritabilità piuttosto che con umore triste o perdita di interesse. L'umore irritabile associato con un disturbo depressivo maggiore può essere confuso con quello legato ad episodi maniacali con umore irritabile; in questo caso è discriminante la presenza di sintomi maniacali.
Dati epidemiologici confermano, in particolare, l’importanza del disturbo d’ansia nella depressione dell’adolescenza (Braconnier, 2002). Circa i due terzi degli adolescenti depressi presentano, infatti, una storia clinica di disturbi ansiosi (Ammaniti, 2002), tanto che Goodyer et al. (1997) hanno proposto di considerare l’ansia come un fattore predisponente alla sofferenza depressiva, tale da rappresentare una fase diversa di un unico disturbo.  
Il clinico dovrà quindi porre molta attenzione ricordando che una valutazione diagnostica in un senso non sempre esclude un'altra. Un'attenta valutazione è ancora più necessaria in caso di quei disturbi verso i quali le ricerche evidenziano una prognosi migliore se trattati psicofarmacologicamente.
Alla luce di quanto affermato fino ad ora è evidente la necessità di distinguere tra la depressione che possiamo considerare come un fenomeno “normale” in ogni adolescente ed il problema della malattia depressiva che compare solo in alcuni di loro.
La descrizione che segue è basata su un modello psicopatologico del funzionamento psichico dell’adolescente depresso. In base alla predominanza di questa o quella dimensione della depressione potremo distinguere tra: la sindrome di minaccia depressiva, depressione di abbandono, depressione di inferiorità e depressione melanconica.
·         Sindrome di minaccia depressiva. Il normale lavoro di separazione che è parte integrante del processo adolescenziale può essere ostacolato in occasione di situazioni particolari (perdita di un genitore, divorzio, carenze affettive particolarmente gravi). La comparsa più o meno improvvisa di un timore per il futuro oppure di una intensa paura di essere invasi dalla tristezza, il cattivo umore, ed idee suicide, quindi, condurranno l’adolescente a sperimentare un forte stato di tensione psichica e fisica. L’angoscia è sempre da un punto di vista temporale la manifestazione iniziale e qualitativamente più evidente, essa corrisponde ad una condizione di lotta del soggetto contro il pericolo che sembra minacciarlo. In questi casi, però, lottare a poco a poco sembra sempre più penoso e compare, quindi, la risposta depressiva che in un primo momento s’intreccia a quella ansiosa per poi progressivamente prenderne il posto. Nella maggior parte dei casi questa reazione è breve perché si stabiliscono nuove relazioni o si sviluppano nuovi interessi.
·         La depressione di abbandono. Considerata da Masterson (Marcelli, 1996) la causa della sindrome borderline, la depressione di abbandono è il quadro cui ci si riferisce quando si ha davanti un adolescente la cui espressione sintomatica sia dominata dal passaggio all’atto o autoaggressivo. Non tutti gli adolescenti che reagiscono essenzialmente tramite passaggi all’atto presentano necessariamente questo tipo di depressione, ma un’attenzione particolare va posta a quegli adolescenti che non passano all’atto allorché questa condotta è impedita per una ragione qualsiasi. L’elemento essenziale, in altri termini, risiede nel fatto che, se le condizioni esterne impediscono all’adolescente di passare all’atto, si osserva allora che egli si deprime, crolla. Egli spesso scoppia a piangere, provando un profondo sentimento di vuoto e di sprofondamento. Sul versante psicopatologico questa depressione di abbandono rappresenta il secondo termine della triade borderline descritta da Masterson. Il primo termine è rappresentato dall’incapacità dell’adolescente di affrontare in modo soddisfacente il secondo processo di separazione-individuazione in ragione proprio degli antecedenti molteplici di separazione o di abbandono che hanno suscitato una profonda sofferenza nel bambino. Questa incapacità ed il confronto con questa paura provocano un’angoscia ed una reazione depressiva che è il secondo termine della triade borderline. Nei riguardi di quest’angoscia e della depressione che ne risulta l’adolescente reagisce spesso utilizzando meccanismi di difesa propri dei soggetti borderline: passaggio all’atto, scissione, meccanismo di diniego, ecc. è il terzo termine della triade che porta spesso l’adolescente ad una posizione depressiva. Questa depressione si osserva più di frequente negli adolescenti che hanno un passato “carenziale” o abbandonico. Ritroviamo qui la spiegazione psicopatologica di certi acting considerati come equivalenti depressivi (assunzione di droga o eccesso di cibo, rapporti sessuali disordinati, relazioni di “aggrappamento”) che hanno la funzione di riempire il vuoto.
·         La depressione di inferiorità. Molto caratteristica dell’adolescenza, questa forma di depressione si manifesta attraverso una importante diminuzione della stima di Sé e attraverso sentimenti di inferiorità. Tali sensazioni di inferiorità sono in genere legate ad un contesto particolare, scolastico, fisico o tali da interessare la personalità nel suo complesso. A questo stato d’animo si associa il più delle volte la sensazione di non essere amati o approvati ed un disinvestimento oggettuale che si traduce nel disinteresse per il mondo esterno o in un rapporto con esso incentrato sulla ricerca di conferme o verifiche del proprio valore. Sul piano semeiologico timidezza o pensieri dismorfofobici possono accompagnare questo tipo di depressione. Siamo qui evidentemente in una problematica di tipo essenzialmente narcisistica, rimanendo presente il conflitto principale tra le esigenze ideali che si danno questi adolescenti e la valutazione del loro Io. Queste esigenze ideali il più delle volte assumono una coloritura megalomanica che spesso viene a colmare una minaccia di perdita di identità.
·         La depressione melanconica. Per ciò che riguarda la psicosi maniaco-depressiva è necessario sottolineare che nell’adolescente questo disturbo si riscontra molto più spesso di quanto si possa pensare e che ha somiglianze semiologiche con l’equivalente disturbo dell’adulto. I criteri diagnostici utilizzati per l’adulto sono facilmente identificabili in molti adolescenti che presentano questo disturbo con la differenza che, nel momento dell’adolescenza, esiste una maggiore irritabilità, iperattività, distrazione o mancanza di concentrazione. Se da un punto di vista sintomatico questa depressione può essere leggermente diversa da quella dell’adulto, dal punto di vista psicopatologico è del tutto sovrapponibile.

2.3 L’adolescente e i suoi sistemi

L’adolescente, alle prese con le problematiche di perdita e di delusione, dipende ancora in modo sostanziale dall’ambiente, in altre parole dalle figure significative della sua vita quotidiana. A differenza di quanto accadeva nel passato, ora però, egli desidera soprattutto distanziarsi da esso, per potersi garantire uno spazio privato, entro cui forgiare la propria identità ed una nuova e più completa rappresentazione di se stesso. In questo contesto relazionale, non solo gli adolescenti, ma anche i loro genitori sono profondamente coinvolti. L’analisi dello stretto rapporto esistente tra posizione psichica dei genitori e dinamiche dell’adolescente permette di comprendere il senso delle risposte adolescenziali all’esperienza depressiva.
È indiscussa ormai l’importanza rilevante della posizione psichica dei genitori nell’evolvere della crisi adolescenziale del figlio. I genitori, se psichicamente adulti, hanno gli strumenti per affrontare positivamente la loro crisi di mezza età, elaborando la posizione depressiva che si propone con nuovi e specifici temi in quest’epoca della vita. Nei vissuti parentali, tornano pregnanti le tematiche relative alla separazione-individuazione: c’è da affrontare, ad esempio, il distacco dal figlio che cresce e si allontana. Movimenti ed esiti di questa elaborazione sono parte integrante delle realtà ambientali in cui l’adolescente si trova a vivere ed a “mutare”, incidendo in modo significativo sulla sua evoluzione (Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990).
Anche il figlio adolescente vive un momento critico del processo di separazione-individuazione: è alla ricerca della sua nuova immagine, della sua nuova identità, dei suoi valori personali, che gli consentano di riorganizzare le relazioni in famiglia, nel gruppo dei pari e della società.
Solo tale riorganizzazione gli permetterà di compiere scelte che, mentre lo pongono in relazione stabile con gli altri, pure devono salvaguardare l’espressione spontanea del Sé. Tutti gli autori che si sono occupati di adolescenza hanno sottolineato il fatto che il processo di separazione dell’adolescente, dalla sua famiglia, è un momento particolarmente importante per la sua crescita e per quella del suo sistema familiare. I cambiamenti che avvengono nell’adolescente non lasciano, infatti, immutato il sistema familiare, il conflitto che egli vive tra separazione e autonomia vengono espressi in diversi modi (verbale, silenzi, provocazioni, aggressività verbale; e non verbale, modo di vestire, rapporto con il cibo) e spingono l’intero sistema familiare a riorganizzarsi (Moderato, Rovetto, 2001). Questo processo di separazione appare a volte difficile e viene facilitato dalle caratteristiche della famiglia stessa. Questo avviene in una famiglia in cui ci sia una chiarezza di confini (Minuchin, 1974); una buona flessibilità organizzativa ed esplicita definizione di regole per l’esercizio del potere (Haley, Gruppo di Palo Alto, Sellini Palazzoni ed altri); un buon livello di autostima, sostegno reciproco dei vari membri, comunicazione chiara, diretta leale, regole flessibili e aperte al cambiamento, legame fiducioso con la società (Satir, 1964); la possibilità di giocare con flessibilità e creatività, la consapevolezza dello scorrere del tempo (Whitaker, Napier, 1978); un “buon” attaccamento che determina un senso di appartenenza, ma anche di differenziazione e di scoperta (Bowlby, 1980).
Secondo Scabini (1995) l’atteggiamento dei genitori più adeguato è quello della protezione flessibile che permetta l’emergere dei bisogni di autonomia e di differenziazione e nello stesso tempo di dipendenza, protezione e appartenenza. Secondo vari autori (Scabini (1995; Minuchin, 1974) un equilibrio tra livelli moderati di coesione e di individualità consente al sistema familiare di trasformarsi e all’adolescente di rendersi autonomo pur mantenendo un senso di appartenenza.
Questo processo di separazione appartenenza diventa difficile, invece, nelle famiglie “invischianti” in cui sono fortissimi i legami di dipendenza e nelle famiglie “disimpegnate” in cui non è presente un senso di appartenza, in cui i membri sono tra loro indipendenti (Moderato, Rovetto, 2001). Genitori effettivamente distanti non possono soddisfare i bisogni dei figli, i quali si sentono rifiutati, non amati e non possono ricorrere a loro per risolvere il loro conflitti adolescenziali (Greenberg e Mitchell, 1990). La combinazione di una madre “dominatrice” e di un padre passivo e assente è stata riscontrata in parecchi casi di bambini che hanno tentato il suicidio che si presenta come disperata ricerca di attenzione e cure (Dobrowolski, Cagnarli, 1994).
Se i genitori riescono nel compito evolutivo, personale ed intrapsichico, l’adolescente troverà in essi quell’ambiente “sufficientemente buono” in cui vivere adeguatamente la sua età. Il loro fallimento nel ruolo parentale, invece, avrà conseguenze patologiche più o meno devastanti per loro e per il figlio.
In questi ultimi casi, madre e padre rimangono assenti o deboli nei confronti del figlio, a cui è resa impossibile la lotta e la presa di distanza psichica. L’adolescente rimane allora invischiato nell’universo narcisistico primario, con legami collusivi e confusivi sia nella dialettica identificatoria sia nelle relazioni intergenerazionali (Aliprandi, Pati, 1996). Occorre perciò individuare, all’interno delle dinamiche psichiche in gioco nel rapporto genitori-figli, le condizioni necessarie all’adolescente affinché egli sia in grado, al termine dell’adolescenza o all’inizio dell’età adulta, di confrontarsi con l’angoscia depressiva. Tra dipendenza e indipendenza, come il bambino di un tempo, l’adolescente è impegnato a salvaguardare la propria identità, a non tradire se stesso. In tale contesto emotivo, risulta necessario che l’ambiente, in particolare i genitori reali, riprenda attivamente nei confronti dell’adolescente quella funzione di holding specifica dell’antico rapporto tra madre e bambino, declinata ora soprattutto in termini di holding mentale (Winnicott, 1965). Come allora, è in gioco l’instaurarsi del senso di un nuovo Sé, separato dall’oggetto, in grado di acquisire una nuova identità di uomo o donna adulto, senza perdere l’integrità e la continuità del suo essere. L’adolescente sul versante dei movimenti oggettuali, si confronta con un mondo fantasmatico inquietante, si trova in uno stato di ondeggiamento, di allenamento che può giungere alla sospensione degli investimenti e delle rappresentazioni oggettuali che fanno da supporto agli investimenti stessi. Da qui il bisogno, contrastante con le sue spinte di autonomizzazione, di dipendere dalle conferme esterne, da qui la ricerca di oggetti vicarianti. La vita di gruppo, così importante in quest’epoca, e la ricerca di altri adulti estranei alla famiglia, quali referenti significativi esemplificano alcuni aspetti dell’attuale fenomenologia. Bisogno e ricerca che esprimono l’intensa necessità dell’adolescente di trovare, ancora fuori di Sé, nella realtà esterna, un ambiente individuale, capace di garantire la continuità narcisistica del Sé (Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990).
Il malessere depressivo, comunque esso si manifesti, ha il preciso senso di un’implicita richiesta di aiuto, di un SOS che si fa sentire in modo tanto più drammatico, quanto più sono accentuati e profondi i movimenti regressivi. Esso, però, è soprattutto un grido carico di speranza che l’adolescente lancia all’ambiente in un momento transitorio e al tempo stesso sconvolgente per le trasformazioni in atto. Nel grido c’è la speranza di trovare un oggetto capace di reggere la situazione, per tutto il tempo di cui egli avrà bisogno per giungere ad esperire autentici sentimenti di depressione, di compassione, di colpa, ma anche di amore, tenerezza ed orgoglio, in attesa che tale esperienza positiva diventi parte della sua realtà interna.
Gli specifici tratti dell’adolescente, per definizione immaturo, cioè incompiuto, non ancora completamente responsabile, la cui cura è il passare del tempo, tempo per crescere, per arrivare allo stato adulto, richiedono la presenza di un ambiente che sia lì, senza cambiare atteggiamento o alcun principio importante. Accettare la sfida con l’adolescente è preciso compito dell’adulto. In tal modo, mentre lotta per sentirsi reale e trovare se stesso, l’adolescente può prendere consapevolezza del suo posto nel processo di indipendenza. Raggiungere l’interezza di Sé comporta un lungo confronto con le figure genitoriali, nel loro ruolo di “cassa di risonanza” empatica e di primarie figure di autorità e di ideale. Si troverà sempre l’adolescente che per difendersi dalle proprie difficoltà, ancora incapace di assumersene le responsabilità, farà sentire responsabili i propri genitori, attaccandoli, anche nel caso in cui le cure dell’infanzia e le successive relazioni siano state sufficientemente buone tra genitori e figli. Sta al genitore accettare sofferenza e confusività in cui il figlio fisiologicamente si viene a tratti a trovare, ma anche essere il rappresentante vivo di tali emozioni destabilizzanti, senza agirle contro il figlio stesso, in un gioco difensivo-proiettivo che porterebbe ineluttabilmente ad un’estenuante e mortificante escalation di aggressività distruttiva.
Nel confronto costruttivo con le figure parentali, l’adolescente realizzerà via via sempre più saldamente, la capacità di accettare tutta la responsabilità delle proprie idee distruttive, non tanto quando sono dirette verso un oggetto frustrante, bensì quando sono dirette ad un oggetto amato. Il paragone con il modello genitoriale di elaborazione del senso di colpa permetterà al figlio di arricchirsi della loro esperienza e di elaborarla con proprie modalità e propri tempi per renderla, infine, parte integrante del suo Sé (Aliprandi, Pelanda, Senise, 1990).
L’adolescente raggiungerà lo stato di maturità solo quando avrà acquisito la capacità di assumersi la responsabilità di tutti i suoi sentimenti e pensieri, di ciò che succede nel suo mondo della fantasia e la capacità di tenere integrato dentro di Sé tutto ciò che è personale, di qualsiasi segno esso sia.
Allargando le riflessioni dall’ambiente personale alla società, di cui l’adolescente è la forza futura, con Winnicott ci si può chiedere se la nostra società è abbastanza sana per poter accogliere un individuo in fieri, se essa è disposta a crescere insieme a lui. Quel che appare certo è che l’organizzazione mentale dell’adolescente, le sue conquiste di autonomia, la sua stessa assunzione di identità sessuale restano strettamente intrecciati al momento storico e all’ambiente entro cui egli vive la sua adolescenza.

2.4 Un approfondimento psicodinamico

In nessun altro periodo della vita, come in adolescenza, l’apparato psichico è sottoposto a cambiamenti tanto profondi e tali da interessare tutti i settori del suo funzionamento.
L’incessante tensione dialettica fra progressione e regressione, primitività e differenziazione (Ladame, 1981), comporta un continuo rimaneggiamento dei rapporti che l’adolescente ha con il suo corpo, le figure genitoriali ed i suoi coetanei.
Sul piano emotivo il passaggio all’età adulta richiede, infatti, all’adolescente la capacità d’intimità nelle relazioni accanto alla possibilità di stare soli. Il rischio, di contro, è una polarizzazione fra fusione ed isolamento, benessere ideale della simbiosi primitiva e totale smarrimento dell’abbandono (Ladame, 1981). Non a caso, Blos (1967) ha introdotto, a riguardo, il concetto di seconda fase di separazione-individuazione.
Questa riorganizzazione delle funzioni psichiche non può certo avvenire senza conflitti, più o meno manifesti, che richiedono anche un lavoro, spesso doloroso, di lutto, relativo soprattutto al dis-investimento di certe immagini di sé e al disimpegno dai propri oggetti infantili interiorizzati.
Tali rinunce comportano inevitabilmente una certa quantità di sofferenza ed angoscia, ovvero momenti depressivi comuni all’adolescenza e connessi ai sentimenti di perdita.
“Il primo momento di depressione è quello che accompagna il lutto per la perdita della madre-rifugio o, più specificatamente, di quell’ausiliario dell’io rappresentato fino a quel momento dall’io dei genitori” (Ladame, 1981, p.19).
Il lutto della dipendenza infantile e l’attivarsi dei meccanismi d’internalizzazione delle sicurezze prima rappresentate dall’io dei genitori, sono momenti evolutivi essenziali nella costruzione dell’identità adulta.
Non meno importante è, sul piano cognitivo, il passaggio da una modalità di pensiero concreto, tipicamente infantile, ad una forma di pensiero astratto e simbolico, in cui la conoscenza non è più necessariamente ancorata a ciò che è contingente, ma procede attraverso il possibile (Moderato, Rovetto, 2001). Questo offre all’adolescente non solo la possibilità di ragionare in termini di ipotesi astratte puramente verbali e di dedurne possibili conseguenze, ma soprattutto lo aiuta a conoscere, controllare e regolare le proprie emozioni in modi più funzionali alle richieste dei vari contesti di appartenenza.
Da Freud (1915) fino ai più recenti modelli delle relazioni oggettuali (Greemberg, Mitchel, 1983), la letteratura ad orientamento psicodinamico ha focalizzato l’attenzione su alcuni meccanismi alla base del processo depressivo. 
Accenneremo, in particolare, al “lutto” relativo al sentimento di perdita dell’oggetto amato, alle vicissitudini del narcisismo, ai temi dell’ambivalenza e dell’aggressività e al ruolo svolto dalle relazioni interpersonali sia precoci che attuali.
Entrare progressivamente nell'età adulta implica per l’adolescente compiere necessariamente un processo di separazione dall’ambiente familiare inteso sia come luogo di vita che come cerchia di persone. La perdita oggettuale, in questa fase della vita fa riferimento, principalmente, alla graduale separazione fisica e psichica dalla famiglia, alla rottura dei legami precedenti e al distacco dai propri oggetti d’amore infantile (Ammaniti, 2002).
Questo vissuto di perdita dell’adolescente si sviluppa, più in particolare, su due livelli (Marcelli, 1993; Marcelli, Braconnier, 1996):
·            Corporeo, con la perdita della stabilità della propria immagine corporea ed il sentimento di inadeguatezza rispetto a se stessi ed agli altri. L'adolescente fa esperienza di un corpo che manda segnali sessuali nuovi e che spinge l'individuo verso le esperienze amorose. Ma questo corpo vitale, deve essere, accolto, accettato dall'individuo ed integrato in una immagine di sé e della propria identità sessuale. Tutto questo sforzo di adattamento può produrre tristezza e depressione come segni della nostalgia di un epoca precedente.
·            Del legame edipico. Si tratta, infatti, di elaborare il lutto per l’investimento edipico e per la dipendenza verso i genitori, approntando con loro una nuova modalità di relazione tanto interna quanto esterna.

Il sentimento centrale, in questa fase, è di avere perduto l'infanzia e di essere d'ora in poi esposti in prima persona sulla scena sociale della vita. Blos (1967) utilizza il termine “disimpegno” per qualificare il lavoro psichico compiuto dall’adolescente in questa necessaria messa a distanza del suo legame con gli oggetti edipici.
Nella misura in cui l’adolescente si distacca dai propri oggetti d’amore infantili, egli attraversa in periodo in cui le preoccupazioni e gli obiettivi narcisistici sono temporaneamente privilegiati a discapito delle tendenze realmente orientate verso gli oggetti. Questo intensificarsi delle componenti narcisistiche può alimentare l’acuta percezione di uno scarto fra ciò che si è e ciò che si vorrebbe essere, generando vissuti di vergogna, inferiorità e mancanza di autostima, che possono dar luogo a spinte compulsive e ad una profonda rabbia narcisistica, animando comportamenti aggressivi contro gli altri e se stessi.
In questi casi si può instaurare un processo regressivo caratteristico della depressione in adolescenza, in cui il normale ritiro della libido dall’oggetto perduto, come presupposto per nuovi investimenti affettivi, non avviene. Si instaura, invece, un’identificazione dell’Io con l’oggetto perduto che viene incorporato.
In questo modo l’adolescente, svalutando ed aggredendo l’oggetto interiorizzato, finisce per accusare e punire se stesso (Ammaniti, 2002). Il meccanismo descritto è assai frequente negli adolescenti depressi ed in particolare in coloro che tentano il suicidio.
Nei giovani suicidi, infatti, non si realizza una separazione completa fra rappresentazioni del sé e rappresentazioni oggettuali (a causa dell’uso massiccio dell’identificazione proiettiva), tanto che la lotta senza respiro contro questi oggetti interni fortemente investiti d’odio si palesa come tentativo di svalutare e sabotare se stessi. Il tentativo di suicidio rappresenta, quindi, la confusione che permane fra questi primissimi oggetti ostili e le rappresentazione del proprio corpo, vissuto ed aggredito come nemico (Ladame, 1981).
Le profonde angosce di questa fase evolutiva, inoltre, possono mobilitare in maniera massiccia diversi meccanismi di difesa particolarmente arcaici fra cui, oltre all’identificazione proiettiva, citiamo varie operazioni maniacali quali l’onnipotenza, il diniego, il disprezzo e l’idealizzazione, utilizzate dall’adolescente per disconoscere il proprio bisogno di relazione (Ladame, 1981). La noia, accompagnandosi ad un inibizione affettiva, motoria ed intellettuale, rappresenta allora una difesa ai conflitti interni ed alle fantasie angosciose (Marcelli, 1993; Marcelli, Braconnier, 1996).
Un ruolo essenziale nell’istaurarsi di un processo depressivo hanno infine le relazioni interpersonali che accompagnano questo tumultuoso periodo esistenziale. Relazioni primarie caratterizzate da incoerenza e scarsa responsività ed attenzione possono determinare nell’adolescente lo sviluppo di “modelli operativi interni” in cui prevale la sfiducia, la severa autocritica o l’eccessiva dipendenza dagli altri, quali precursori di possibili vissuti depressivi (Ammaniti, 2002).    

Cap. 3. Prevenzione e cura: integrazione degli interventi

Le ricerche attuali suggeriscono che, nel caso del disturbo depressivo maggiore, si ottengano maggiori benefici in quei trattamenti che prevedono una collaborazione tra i servizi di terapia psichiatrica e psicologica ovvero la combinazione di terapia farmacologica e psicologica (Fonagy, Roth, 1996). Tale riflessione si inscrive in un più ampio spazio di riflessione relativo all’integrazione degli interventi in ambito clinico.
La prospettiva di un approccio multidisciplinare si configura oggi come una ricchezza tanto dell’utenza quanto degli stessi operatori. Il loro lavoro, infatti, si svolge nella massima sinergia e collaborazione al fine di potenziare le capacità professionali di ciascuno. La pianificazione interdisciplinare è finalizzata a favorire lo scambio, l’integrazione, la comunicazione, il cambiamento e la creazione di diversi contesti di intervento. Tali elementi si profilano come obiettivi dei professionisti che a più livelli lavorano sinergicamente con la psicopatologia. Nasce, quindi, la necessità di uno spazio di lavoro che possa essere insieme momento formativo e curativo.
Secondo Galante e Michelis (2002) “questo continuum tra cura e formazione alimenta la ricerca che progredisce attraverso la conoscenza e la prassi” (p. 51). Nasce, quindi, la necessità di creare strutture in cui ciò possa essere possibile. È questo un punto particolarmente importante e che fonda le proprie radici nella creazione di una rete in cui prevalga una cooperazione finalizzata all’accettazione del paziente nella sua complessità ed accompagnato dai suoi sistemi di riferimento. Il paziente deve essere e sentirsi accettato totalmente e con dignità.
La collaborazione tra diverse competenze dà la reale “possibilità di utilizzare la cultura del gruppo come elemento propulsivo dell’intervento integrato” (Galante, Michelis, 2002, p. 54). Lo scopo, quindi, del lavoro di equipe è quello di “creare un contesto dove complessità e integrazione qualificano i diversi ambiti formativi, di ricerca e di cura” (Galante, Michelis , 2002, p. 52).
All’interno di una simile prospettiva si delineano i tre principali contesti di intervento: la diagnosi, la prevenzione e la cura. 
Il momento diagnostico naturalmente non può prescindere dalla valutazione del sistema familiare di cui fa parte il paziente. Nasce, quindi, la necessità di effettuare una diagnosi che non sia solo legata alla malattia, ma anche e soprattutto al paziente e alla sua realtà che vive spesso con lui la cronicità del suo malessere. La patologia dell’individuo diventa allora patologia del sistema ed anche la cura, in quest’ottica, diventa comprensione ed analisi dei nodi e delle vicende familiari che li hanno determinati. Lavorare attentamente su questi aspetti ha naturalmente un grosso risvolto anche nell’ottica di un efficacie prevenzione. Il dare, ad esempio, un nuovo senso alla cronicità della malattia, il cercare di mantenere i livelli di guarigione raggiunti o il riabilitare alcuni ambiti di funzionamento del paziente e del suo sistema è fondamentale per percorrere insieme una strada che porti alla guarigione. Il rischio che deve essere, però, individuato ed arginato dal clinico è quello di cadere lungo il percorso nelle trappole che spesso sono insite nella malattia stessa.     
Si definisce in questo modo anche una nuova considerazione del concetto di malattia che appare molto più allargata rispetto all’esclusiva focalizzazione sul singolo elemento di un sistema. L’allargamento del concetto di malattia porta con sé a sua volta l’allargamento del concetto di cura esteso anche in questo caso alla realtà ambientale del singolo.
Dopo aver sottolineato, quindi, la complessità di una simile riformulazione dei concetti di diagnosi e di cura dobbiamo riconsiderare anche i termini dell’intervento. Esso, infatti, non può più esaurirsi in un singolo intervento perché, proprio alla luce di tale complessità, ciò non appare più plausibile. Nasce da qui l’esigenza di una diversificazione degli interventi, ma soprattutto di una loro integrazione. Va, quindi, precisato che non solo il paziente si trova a dover integrare i vari contesti in cui è inserito, ma lo stesso clinico dovrà agire nella consapevolezza che il suo è uno spazio all’interno di una rete di contesto.
Si apre in tal modo una nuova finestra di conoscenza che non è più solo quella relativa all’integrazione degli interventi, ma si delinea la necessità di una mente di gruppo integrata. Tale processo si declina nell’ambito di un’adeguata supervisione indispensabile per coloro che vogliano lavorare utilizzando un approccio integrato.
Secondo Galante (Galante, Michelis, 2002, p. 58): “Lo spazio della supervisione è sostanziale nella costituzione e costruzione del processo integrato in quanto raccoglie gli elementi significativi e basilari di ogni setting articolandoli e strutturandoli in quello che abbiamo definito mente integrata”.
Ci è sembrato opportuno introdurre, seppur in modo sintetico, ma esaustivo, il concetto di integrazione degli interventi proprio perché essa si rende necessaria soprattutto quando si lavora con un’utenza molto giovane, ovvero bambini e  adolescenti.

3.1 La Prevenzione

Nell’affrontare la depressione in adolescenza risulta centrale la tematica della prevenzione.
La prevenzione primaria mira a ridurre le possibilità di una malattia in una popolazione che ne è esposta a rischio. Attuare una prevenzione primaria per una patologia come la depressione non è sicuramente una cosa facile. Per quanto riguarda la prevenzione della depressione adolescenziale sicuramente il ruolo della scuola è rilevante.
I progetti di prevenzione/riduzione del disagio giovanile e di educazione socio affettiva possono essere visti come dei progetti di prevenzione primaria della depressione anche perché il pessimismo sul proprio futuro scolastico è una componente fondamentale per l’aumento della depressione e della disperazione (Thompson et al., 1994).
Programmi di prevenzione al disagio giovanile possono, inoltre, essere utili per l’individuazione di situazioni a rischio. L’identificazione e l’intervento su disturbi nei primi stadi di insorgenza della depressione (prevenzione secondaria), ponendo particolare attenzione a discriminare tra le diverse forme di essa, diventa di fondamentale importanza per evitare un aggravamento della patologia.
La prevenzione secondaria della depressione riguarda quindi l’individuazione ed il monitoraggio, la presa in carico e la psicoterapia per i soggetti affetti da depressione e le loro famiglie, l’attivazione di gruppi di auto aiuto e di sostegno. La famiglia e le figure di riferimento rivestono un ruolo importantissimo per cogliere i primi segni di disagio dell’adolescente e diventano i punti cardine della prevenzione. Rocco e Amigoni (1993), inoltre, propongono una strategia preventiva che vede coinvolto il medico di base che può riconoscere la depressione ed  il rischio di suicidio nei propri pazienti.
Le azioni di prevenzione terziaria, mirate alla “riabilitazione”, e di prevenzione secondaria diventano particolarmente importanti nella depressione anche perché diversi autori (Kovacs et al., 1993 ; Thompson et al., 1994; Stoelb e Chiriboga, 1998) concordano sul fatto che ci sia una diretta correlazione tra disturbo depressivo, tentato suicidio e suicidio. Secondo Brent et al. (1995), infatti, un disturbo depressivo è presente in una percentuale compresa fra il 35% ed il 76 % degli adolescenti suicidari. Non a caso Harrington (1994) propone di considerare il suicidio in adolescenza come una fra le principali espressioni sintomatiche di un disturbo depressivo in atto. Questo fenomeno risulta ancor più preoccupante se pensiamo che, negli ultimi anni, il suicidio giovanile, ha subito un notevole aumento, divenendo la seconda causa di morte dopo gli incidenti stradali e gli omicidi, e posizionandosi al primo posto negli USA. A rendere la situazione allarmante è l’andamento in continua ascesa di tali valori e la mancanza di idee precise su come arginare e prevenire il fenomeno. In Italia, nel 2001 ( “Il libro dei fatti”, 2003), il totale dei suicidi nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 24 anni è di 162 (di cui l’84% sono maschi), mentre nella fascia compresa tra 25 e 44 è di 765 (di cui il 77,8% sono maschi).

3.2 Come intervenire?

Come per la maggior parte dei disturbi psichiatrici, la terapia della depressione in adolescenza si caratterizza per l'integrazione di diversi interventi mirati ad affrontare la patologia. Tali interventi si declinano in:
·       Terapia farmacologia. È oggi disponibile un'ampia varietà di farmaci antidepressivi che si suddividono in tre grandi categorie: triciclici (imipramina, clomipramina, amitriptilina), IMAO (inibitori della monoaminaossidasi), e gli antidepressivi di nuova generazione (fluoxetina, maprotilina) che possono avere azione stimolante o sedativa o esercitare un'azione combinata. La scelta del farmaco va studiata individualmente secondo il quadro clinico, la tolleranza soggettiva, le controindicazioni e gli effetti collaterali osservati.
·       Trattamento medico ambulatoriale. Appare indispensabile per fornire un'adeguata informazione e chiarificazione sul significato del disturbo e le sue caratteristiche cliniche, sull'eventuale prescrizione di psicofarmaci, sulla loro azione ed effetti collaterali.
·       Ospedalizzazione. Si rende necessaria in condizioni di elevata gravità della sintomatologia, di mancato supporto familiare, sociale o ambientale, o nel caso in cui il rischio di suicidio sia preoccupante.
·       Psicoterapia. Può spaziare dal sostegno psicologico alla psicoterapia individuale, di gruppo, familiare, di coppia, a seconda delle esigenze e peculiarità di ogni singolo paziente. In particolare dovrebbero essere garantite adeguate misure di assistenza e controllo se il rischio di suicidio si rivela elevato.
Le psicoterapie maggiormente utilizzate nelle depressioni sono di quattro tipi:
ü      ad orientamento sistemico-relazionale, di cui parleremo in modo più approfondito;
ü      ad orientamento cognitivo: si propongono di identificare e correggere gli schemi mentali della persona (la visione negativa di se stesso, del mondo, del futuro) che possono aver contribuito a produrre la condizione depressiva;
ü      ad orientamento interpersonale (mirano ad identificare e correggere i problemi nelle relazioni interpersonali attuali che possono aver precipitato la condizione depressiva);
ü      ad orientamento psicodinamico (si propongono di ricostruire gli eventi ed i conflitti di vecchia data che possono aver predisposto l’individuo alla depressione).

3.3 Alcune considerazioni cliniche sul lavoro con l’adolescente e la sua famiglia

E’ opinione comune che gli adolescenti siano difficilmente coinvolgibili in una psicoterapia e particolarmente diffidenti alle terapie familiari che ne minaccerebbero i tentativi di individuazione e autonomia (Manfrina, 1994).
Queste considerazioni derivano in particolare dalle difficoltà che spesso il clinico incontra nell’instaurare un buon legame terapeutico con l’adolescente.
In particolare, nel lavoro con l’adolescente depresso, si assiste all’incapacità di un investimento sessuale ed erotico su nuovi oggetti d’amore, che rappresenta una minaccia troppo grande per la sua base narcisistica.
Il percorso analitico con gli adolescenti depressi infatti è spesso costellato da rotture o interruzioni della relazione, difficilmente prevedibili dal terapeuta e che rimandano alla difficoltà del giovane paziente di “invaghirsi” dal punto di vista transferale (condividere con l’altro ciò che ha di più intimo) per paura di non potersi “distaccare” (dal legame di attaccamento dall’oggetto d’amore originario) (Braconnier, 2002).
In altri termini, il massiccio attaccamento inconscio agli oggetti cattivi del passato opera come un fattore di resistenza, che può scatenare una reazione terapeutica negativa (Ladame, 1981).
Un percorso terapeutico individuale, seppur faticoso, rappresenta comunque un luogo privilegiato in cui poter sperimentare una relazione oggettuale nuova, fondata sulla fiducia e attivare le potenzialità evolutive dell’adolescente.
Per quanto riguarda il lavoro con la famiglia, l’approccio sistemico-relazionale individua nel sintomo non solo la manifestazione di una sofferenza dell’individuo, ma l’espressione di un disagio che investe nella totalità il sistema di cui l’individuo fa parte. Il paziente diventa il portatore esplicito di un malessere che si ricollega ad un’organizzazione disfunzionale del sistema.
L’approccio familiare è una necessità frequente, in particolare quando l’attitudine dei genitori sembra giocare un ruolo induttore o anche patogeno, ad esempio nella depressione dell’adolescente così come in altre patologie.
Nell’approccio relazionale anche il concetto di diagnosi appare modificato. L’unità diagnostica (Lalli, 1999) non è più l’individuo, ma il sistema e la rete di relazioni in cui egli è coinvolto e la valutazione diagnostica (Lalli, 1999) non consiste più in un incasellamento nosologico della patologia, ma nel ridare e restituire un senso a ciò che appare inspiegabile anche agli stessi attori della domanda. In tale prospettiva si connota come inadeguata la diagnosi tradizionale tutta centrata sull’individuo che deresponsabilizza e passivizza il gruppo familiare. La diagnosi familiare, al contrario, sposta la designazione del singolo e coinvolge tutti i membri del gruppo nella responsabilità comune di affrontare comuni problemi, ricercandone insieme la soluzione. Al rispetto e all’attenzione per la sofferenza dell’adolescente si associa il tentativo di ri-comprenderla nel senso di capirla e di integrarla nell’ambito del disagio collettivo usando modalità di intervento orientate sull’insieme complesso dei rapporti interpersonali. Finalità del processo terapeutico deve essere allora quella di fornire al sistema famiglia nuove visioni di realtà e far sperimentare modelli alternativi di funzionamento e di interazione.
Il coinvolgimento del sistema familiare, soprattutto quando si parla di patologie adolescenziali, non è sempre semplice. Esistono all’interno di un sistema e, quindi, anche all’interno della famiglia delle resistenze al cambiamento ed, inoltre, si animano timori di colpa legati all’idea che il coinvolgimento familiare nasconda, da parte del clinico, intenti accusatori.
Il lavoro del terapeuta, quindi, deve essere molto attento e scrupoloso nel far vivere alla famiglia un loro coinvolgimento come una risorsa terapeutica, deve valorizzare il contributo di tutti alla comprensione di ciò che sta accadendo e alla ricerca di soluzioni nuove. Compito del clinico è, di conseguenza, sostenere la partecipazione attiva dell’intero nucleo familiare come via privilegiata per superare le difficoltà. Nel far ciò può spostare l’attenzione dall’indagine sul sintomo a quella sulla situazione. L’intervento sull’ambiente familiare può contrastare efficacemente la tendenza al cedimento che è insita, ad esempio, nel clima depressivo vissuto dall’adolescente e dai suoi genitori. Tale tendenza al cedimento è naturalmente riscontrabile anche nel caso di altre patologie e può essere riformulata dal clinico come una nuova e ricca opportunità per stabilire una buona alleanza terapeutica. I genitori dell’adolescente, infatti, possono viversi la terapia anche come una sorta di sostegno che evita uno scivolamento nella disperazione e nello sconforto nel momento in cui sentono che il terapeuta lavora per alleviare la sofferenza e risolvere le difficoltà di tutti.
Naturalmente è doveroso da parte del terapeuta una riformulazione della domanda che spesso da parte dei genitori è la richiesta di un intervento medicalizzante che si concluda con la prescrizione magari di qualche farmaco o con una serie di parole magiche che risolvano in modo indolore le problematiche dell’adolescente ed in ultima analisi le loro. La riformulazione della domanda diventa così momento essenziale del processo terapeutico e coincide spesso con il passaggio da una designazione di malattia della quale l’adolescente è portatore al coinvolgimento del nucleo familiare corresponsabilizzato nella ricerca di nuove soluzioni che “guariscano” non solo il paziente, ma tutto il sistema.
Nel caso specifico della depressione adolescenziale l’apparente ostilità o indifferenza, anche per i propositi di natura provocatoria assieme ad un viso che non ha l’aria depressa ed in assenza di espressione di tristezza, con momenti di attività intermittente, può indurre in errore il clinico che non ha la consuetudine al lavoro con gli adolescenti. Nella peggiore delle ipotesi egli può interpretare l’ostilità o l’indifferenza come un segno diretto di rifiuto. La tendenza in questi casi è di rispetto nell’attesa che aumenti la motivazione ed il coinvolgimento personale dell’adolescente nella terapia.
Alcune tecniche che si possono utilizzare nella terapia famigliare e che sono particolarmente adatte nel lavoro con gli adolescenti sono le sculture familiari, le metafore, ed i miti familiari.
Nelle sculture familiari si richiede alla famiglia di dare una rappresentazione visiva e spaziale della propria immagine attraverso la disposizione dei corpi e dello spazio e tutta la gamma degli aspetti non verbali che la accompagnano. È possibile anche utilizzare le sculture evolutive che mettono a confronto, per ogni membro della famiglia, una scultura del “presente” così come lo “scultore” la vede nel momento attuale, nella fenomenologia delle interazioni in atto, e una scultura del “futuro”, cioè una rappresentazione di come la famiglia, secondo lo “scultore”, sarà nel futuro, come egli la immagina per esempio dopo un decennio di storia familiare (Onnis et al., 1992). Ciò che accade frequentemente di osservare è che la scultura “del futuro” esprima una resistenza e una paura di cambiamento.
Nell’utilizzo della metafora si cerca di stimolare la famiglia attraverso un uso serrato ed articolato di metafore, immagini, favole, oggetti metaforici ed altro.
Il mito familiare contiene una serie di credenze condivise da tutti i membri della famiglia, riguardanti ciascuno di essi e le loro posizioni reciproche all’interno della vita del sistema (Malagoli Togliatti, Cotugno, 1996).
Un valido intervento mira, comunque, a svestire l’adolescente della sua veste di paziente designato poiché egli percepisce che non è solo lui la persona che sta male, ma che l’intero nucleo familiare è in qualche modo disfunzionale. In questi casi si può assistere alla nascita di un rapporto di fiducia tra il clinico ed il paziente designato che nel corso della terapia rifiuterà sempre con più forza i tentativi dei genitori di mantenere lo status quo.

Prima di lasciarci vorremmo concludere questo lavoro con una riflessione che ci ha molto colpito.
Se una persona che è caduta in una profonda buca mi chiede aiuto posso fare alcune cose. Posso chiedere aiuto, o posso lanciare la corda. Se non posso fare né l’una né l’altra cosa, anziché fermarmi a parlargli sul bordo della buca con tono rassicurante, posso scendere nella buca” (Nole, Chianura, in Bossoli, F., Mariotti,M., Onnis, L., 1994, p.814).

       

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