giovedì 2 giugno 2011

PSICOLOGIA DELLE EMERGENZE: GLI EVENTI TRAUMATICI IN ETA' INFANTILE

IL DISTURBO POST-TRAUMATICO DA STRESS NELL’INFANZIA

1. ASPETTI GENERALI
È noto, già dal secolo scorso, come eventi traumatici particolarmente intensi, inaspettati e  stressanti, possano determinare nelle persone coinvolte, una complessa costellazione di sintomi psichici, correlati neuro-vegetativi e manifestazioni comportamentali associate.
Vari termini quali psiconevrosi da spavento, nevrosi psichica da trauma, shock nervoso, sindrome dei sopravvissuti o psiconevrosi emozionale acuta, sono stati utilizzati, nel passato, per identificare le particolari reazioni ansiose e depressive conseguenti ad incidenti, disastri naturali, guerre, persecuzioni, deportazioni, aggressioni, crimini violenti o molestie (Sgarro, 1997).
Lo stesso Freud nel suo scritto del 1920 “Al di là del principio del piacere” si è soffermato sulle nevrosi traumatiche di individui che avevano subito gravi shock durante le loro esperienze di guerra. La tendenza di questi pazienti a rievocare nei loro sogni queste situazioni traumatiche, veniva considerata come un tentativo dell’Io di dominare una situazione da cui originariamente era stato sopraffatto.
Solo in tempi recenti è stato introdotto, nel DSM III (American Psychiatric Association, 1980), il termine Post Traumatic Stress Disorders (PTSD) come entità diagnostica distinta, che va così a sostituire la categoria non-specifica delle “Gravi reazioni allo stress” presente nelle edizioni precedenti del Manuale.
Sul riconoscimento, benché tardivo, del PTSD hanno influito sia le forti pressioni esercitate sull’American Psychiatric Association dai reduci della guerra del Vietnam, che chiedevano riconosciuti i gravi ed invalidanti effetti derivati dal trauma del conflitto, sia anche, una maggiore comprensione e ad una più diffusa sensibilità rivolta alle conseguenze spesso devastanti di incidenti e violenze di vario genere su adulti e bambini (Gabbard, 1995).
Il Disturbo Post Traumatico da Stress rappresenta comunque tuttora una entità diagnostica piuttosto controversa, tanto che non sono pochi coloro che ritengono sia solo un misto di ansia e depressione (Gabbard, 1995). La sua inclusione nella categoria dei Disturbi d’Ansia del DSM III, per la presenza di idee intrusive ed ansiogene, ipervigilanza e comportamenti fobici e di evitamento, è stata peraltro molto discussa, visto che l’ansia è solo un elemento dell’intera costellazione di sintomi.
Nel DSM IV (American Psychiatric Association, 1994), rispetto alle precedenti edizioni, vengono modificate le caratteristiche degli stressor, non più eventi eccezionali al di fuori dell’ambito dell’esperienza umana abituale, ma soprattutto si raggiunge un diffuso consenso sull’importanza che le reazioni soggettive degli individui coinvolti, più che la gravità degli stressor, hanno nel determinare il PTSD.
L’aspetto più critico di queste formulazioni riguarda, tuttavia, la difficoltà di definire chiari criteri diagnostici relativi al PTSD in età infantile, che evidenzia tutte le lacune e i ritardi di una ricerca che ha spesso trascurato il peso dei fattori di sviluppo sull’elaborazione e la risposta dei bambini agli eventi traumatici.
Malgrado l’alta frequenza dei PTSD nell’infanzia (Fletcher, 1996), infatti, l’attenzione iniziale rivolta ai traumi di guerra ed in generale alle modalità di reazione degli adulti agli stressor, ha fatto sì che solo nel DSM III-R (American Psychiatric Association, 1987), venisse riconosciuta la possibilità che il PTSD nei bambini potesse avere caratteristiche cliniche diverse rispetto agli adulti.
Peraltro, evidenze cliniche (Scheeringa et al.,1995) hanno dimostrato la difficoltà di applicare questi criteri diagnostici del PTSD a soggetti al di sotto dei quarantotto mesi.

2. IL QUADRO CLINICO
Per soddisfare i criteri del PTSD posti dal DSM IV (American Psychiatric Association, 1994), la persona deve anzitutto essere stata esposta ad un evento traumatico tale da soverchiare le capacità individuali di farvi fronte, ed implicare una seria minaccia di morte o di gravi lesioni per se stesso o per altri.
La definizione dell’evento traumatico include il ruolo essenziale giocato dalle reazioni  soggettive della persona coinvolta nel determinare o meno lo sviluppo del PTSD. Negli adulti, a riguardo, si parla di intensa paura, sentimenti di impotenza o di orrore, mentre nel caso dei bambini, viste le loro limitate capacità verbali e conoscenze di base, spesso può essere assai difficile definire come viene percepito soggettivamente l’evento traumatico. Si preferisce, pertanto, in età infantile, parlare di comportamento disorganizzato o agitato in risposta allo stressor (American Psychiatric Association, 1994).
I sintomi del PTSD vengono distinti in tre raggruppamenti principali. Il primo comprende sintomi relativi alla “risperimentazione dell’evento traumatico”, attraverso ricordi spiacevoli ricorrenti e intrusivi, incubi, o sensazioni di rivivere il trauma (allucinazioni e fleshback) (American Psychiatric Association, 1994). Nei bambini l’evento traumatico può riemergere nei giochi ripetitivi post-traumatici, in cui vengono espressi temi o aspetti riguardanti l’episodio, o essere rivissuto in incubi ripetuti, nell’angoscia che segue alla richiesta di ricordare o in episodi dissociativi in cui il trauma viene riprodotto senza alcuna intenzionalità (National Center For Clinical Infant Programs, 1994).
Il secondo gruppo di sintomi si riferisce invece, alle “modalità di evitamento e appiattimento delle risposte” messe in atto come difesa all’esperienza traumatica. In particolare, negli adulti ci riferiamo agli sforzi  per evitare pensieri e sensazioni associate al trauma, all’incapacità di ricordare aspetti importanti dell’esperienza, a sentimenti di distacco dagli altri, ridotta affettività e sfiducia nel futuro (American Psychiatric Association, 1994). Nei bambini, oltre al ritiro sociale e ad una gamma limitata di affetti, si può riscontrare una perdita temporanea di competenze già acquisite (linguaggio, controllo degli sfinteri) e una riduzione delle capacità di gioco (National Center For Clinical Infant Programs, 1994).
“Nei bambini, il senso di diminuzione delle prospettive future può essere evidenziato dalla convinzione che la vita sarà troppo breve per diventare adulti. Vi può essere anche una “tendenza divinatoria”, cioè la convinzione di avere la capacità di prevedere eventi futuri infausti” (Sgarro, 1997, p.36).
 Risulta assai difficile tuttavia valutare le modalità di evitamento messe in atto dai bambini, al di là della semplice descrizione dei loro comportamenti, non solo per le limitate capacità verbali di cui dispongono, ma anche per l’incertezza riguardo al modo in cui elaborano e comprendono l’esperienza traumatica a partire dalle specifiche competenze cognitive, affettive e relazionali proprie del livello evolutivo raggiunto (Salmon, Bryant, 2001).
L’ultimo gruppo di sintomi riconosciuto dal DSM IV (American Psychiatric Association, 1994) riguarda, infine, le risposte di iperattivazione, non presenti prima del trauma, quali insonnia, irritabilità, ipervigilanza, difficoltà a concentrarsi e risposte di allarme esagerate. I bambini possono anche esibire vari sintomi fisici, come mal di testa o mal di stomaco.
La Classificazione diagnostica: 0-3 (National Center For Clinical Infant Programs, 1994) riporta, inoltre, un gruppo di sintomi relativi a paure e ad aggressività, manifestate dai bambini in seguito a traumi. In particolare si tratta di forme di aggressività rivolta a pari, adulti o animali, paura del buio, ansia di separazione e comportamenti dannosi ed autolesivi.
Col termine di Disturbo Acuto da Stress (ASD) (American Psychiatric Association, 1994) sono, invece, descritte le reazioni che si manifestano entro un mese dall’esposizione all’evento traumatico e, rispetto al PTSD, si pone una maggior enfasi sui sintomi dissociativi, quali distacco affettivo, derealizzazione, depersonalizzazione e amnesia dissociativa. Secondo vari autori, l’ASD può fornire criteri utili ad identificare nella fase acuta a seguito del trauma, individui che successivamente svilupperanno un Disturbo post Traumatico da Stress. Tuttavia, nessuno studio ha investigato in maniera sistematica le possibili relazioni fra ASD e PTSD nell’infanzia. Come suggeriscono Salmon e Bryant (2001), prima che l’ASD possa essere applicato all’infanzia per predire lo sviluppo del PTSD, è necessario condurre estese ricerche su bambini a differenti livelli di sviluppo e su popolazioni con differenti traumi. 

2.1 INCIDENZA DEL PTSD NELL’INFANZIA
La letteratura riporta dati piuttosto variabili sull’incidenza del Disturbo Post Traumatico da Stress nell’infanzia, a seconda dei fattori inclusi nelle ricerche, della severità e della cronicità degli stressor, della prossimità del bambino al trauma, del suo impatto soggettivo, e del tempo trascorso dall’evento (Salmon, Bryant, 2001). La gran parte di questi studi sono stati condotti a seguito di disastri naturali, guerre, aggressioni criminali, abusi sessuali e incidenti.
Le percentuali di PTSD nell’infanzia a seguito di disastri naturali sono in genere inferiori rispetto ad altri tipi di eventi traumatici, con una stima approssimativamente del 5% (Shannon et al. 1994).
Molto più alte, dal 27 al 33 %, sono invece le stime del PTSD rilevate nell’infanzia a seguito di crimini violenti e di esperienze relative a periodi di guerre o stravolgimenti socio-politici (Saigh, 1991; Schwarz, Kowalski, 1991).
Un studio (Kinzie et al., 1986) sui bambini sopravvissuti ai campi di concentramento in Cambogia ha rilevato che circa il 48% di loro soddisfava i criteri del PTSD a distanza di 4 anni dagli eventi traumatici.
Più recentemente, i conflitti nella ex Jugoslavia e quelli, tuttora in corso, nell’area del Medio Oriente, hanno confrontato gli studiosi (Baker, Shalhoub-Kevorkian, 1999; Thabet, Vostanis 2000; Thabet, Abed, Vostanis, 2002) con la gravità degli effetti a lungo termine di tali situazioni sulle giovani popolazioni interessate.
Il PTSD, inoltre, è stato riscontrato nella quasi totalità dei bambini esposti all’aggressione sessuale della loro madre o all’uccisione di un genitore (Pynoos, Nader, 1989).
Per quanto concerne, invece, le percentuali di PTSD a seguito di abuso sessuale sono molto variabili, dal 22% (Ammaniti, 2001) al 48% dei bambini (McLeer, Deblinger et al., 1988).
L’incidenza del PTSD nell’infanzia, a seguito di traumi fisici acuti, come incidenti automobilistici, infine, è stata stimata intorno al 23% (Aaron et al., 1999). Da alcuni studi, che si sono occupati del PTSD a seguito di lesioni cerebrali di origine traumatica, è emerso inoltre che bambini con una più grave lesione cerebrale mostravano sintomi PTSD più severi rispetto a coloro che presentavano una moderata o nessuna lesione cerebrale. Peraltro, i meccanismi implicati in questo fenomeno non sono ancora noti (Levi et al., 1999).
La maggior prevalenza di Disturbi Post Traumatici da Stress nell’infanzia rispetto all’età adulta è stata evidenziata da Fletcher (1996) nella sua meta-analisi condotta su 34 ricerche che includevano 2697 bambini con varie esperienze traumatiche. È emerso che il 36% di loro, rispetto al 24% degli adulti della popolazione valutata, soddisfava i criteri per il PTSD. L’incidenza del PTSD, inoltre, non differisce marcatamente nei vari livelli di sviluppo, interessando il 39% dei bambini fino ai 7 anni, il 33% dei bambini in età scolare e il 27% di quelli oltre i 12 anni (Fletcher, 1996).
La meta-analisi di Fletcher (1996), infine, indica che l’incidenza di specifici sintomi di PTSD  nella tarda infanzia e nella prima adolescenza, è comparabile alle osservazioni sulla popolazione adulta, in particolare per quanto riguarda i ricordi intrusivi, gli incubi, la diminuzione degli interessi, l’evitamento e l’iperarousal.  
Discorso a parte va invece fatto per la prima infanzia, visti i rapidi ed irregolari cambiamenti in varie aree funzionali, cui và incontro il bambino, che rendono assai più incerta la valutazione delle caratteristiche con cui si manifesta il PTSD.
Alcuni studi su bambini in età prescolare suggeriscono, infatti, una minore presenza in questi, di sintomi cognitivi legati alla risperimentazione del trauma, e un minore evitamento di situazioni o discorsi legati all’evento (Salmon, Bryant, 2001).
Peraltro, visto che gran parte dei criteri diagnostici del PTSD richiedono la descrizione verbale di stati affettivi e ricordi, risulta evidente la difficoltà di una accurata valutazione del PTSD nei bambini in età prescolare.
Non a caso, Scheeringa et al. (1995), esprimono cautela nell’utilizzare criteri diagnostici quali l’evitamento o le lacune mestiche, proponendo invece di fondare la valutazione dei bambini in età prescolare, prevalentemente, su sintomi comportamentali, come il gioco ripetitivo, l’ansia da separazione, gli incubi e l’aggressività.

3. PROCESSI DI ELABORAZIONE DELL’EVENTO TRAUMATICO
Investigare le modalità con cui i bambini, nella prima infanzia, reagiscono ad eventi traumatici implica l’attenta considerazione di quei fattori di sviluppo che regolano i processi di elaborazione e comprensione dell’esperienza.
Salmon e Bryant (2001), a partire da un attenta disamina della vasta letteratura sull’argomento, propongono un interessante modello teorico in cui, l’attenzione ai processi di elaborazione dell’informazione, si affianca alla considerazione degli aspetti emotivi e dei fattori sociali implicati nelle risposte dei bambini ad eventi traumatici.
La fase di codifica è il primo stadio del processo di elaborazione dell’informazione, in cui l’individuo valuta e attribuisce senso all’evento in cui è coinvolto. Eventi traumatici inaspettati possono creare, nei bambini, una netta discrepanza fra schemi cognitivi pre-esistenti e nuove informazioni legate al trauma, tanto da rendere inadeguato il sistema di aspettative che, in precedenza, regolava la conoscenza e le inferenze sull’ambiente circostante.
Elementi essenziali nel processo di codifica dell’informazione sono, quindi, le conoscenze di base possedute dal bambino, in termini di schemi cognitivi ed affettivi di interpretazione del proprio contesto, e le sue capacità linguistiche di rappresentare e condividere l’esperienza vissuta.
Le conoscenze di base del bambino, precedenti all’evento traumatico, hanno un impatto significativo sulla comprensione dell’evento e su una sua rappresentazione mnestica più o meno dettagliata e coerente. Peraltro, situazioni completamente estranee e al di fuori della comune esperienza del bambino, come possono essere gli eventi traumatici, richiedono, per poter essere comprese, del necessario supporto cognitivo ed emotivo fornito da adulti significativi.
Kazak et al. (1997) nel loro studio sul PTSD in bambini sopravvissuti al cancro, hanno proposto che, nella prima infanzia, la limitata capacità di percepire la gravità della minaccia posta dalla malattia, possa rappresentare un fattore protettivo dall’impatto del trauma. Questa limitata conoscenza sulla potenziale minaccia dell’evento traumatico, tuttavia, può anche rendere il bambino più vulnerabile a interpretazioni distorte dell’esperienza, aumentandone l’angoscia.
Il livello di sviluppo del linguaggio e delle capacità di ragionamento consente al bambino di rappresentare verbalmente l’evento e di comunicare agli altri la sua esperienza, in maniera via via più elaborata e complessa. La possibilità di parlare con gli adulti significativi è una risorsa essenziale nella gestione ed elaborazione dell’evento traumatico, visto che aiuta il bambino a valutare, interpretare e reintegrare in memoria l’esperienza; a correggere equivoci e distorsioni nei ricordi; a contenere, gestire e regolare le forti emozioni sperimentate; e ad affinare nuove strategie di coping per far fronte al trauma.
Peraltro, sono spesso gli adulti che, per varie ragioni, evitano di parlare con il bambino della sua esperienza traumatica. Sono genitori che, ad esempio, ne sottovalutano le possibili ripercussioni, o pensano così di proteggere il figlio da ulteriori turbamenti. Altri adulti possono essere riluttanti ad avviare un confronto per via della propria angoscia o dei sensi di colpa legati all’evento. In questi casi, spesso sono i bambini che, collusivamente, evitano di raccontare l’esperienza.
Vari eventi traumatici vissuti dai bambini, come violenze e abusi o gravi malattie (Kazak et al.,1997) possono, inoltre, determinare nei genitori sintomi di PTSD, che interferiscono con la capacita del caregiver di offrire supporto affettivo e spesso motivano il suo evitamento dei ricordi.
La capacità degli adulti significativi di affrontare argomenti spiacevoli, che implicano il dover gestire emozioni negative, o le strategie di coping che questi rinforzano nei loro figli, sono fattori che dipendono in gran parte dalle risorse personali dei caregivers, dalle esperienze passate e da come loro stessi hanno elaborato il trauma che ha interessato i figli. 
Diversi fattori sociali, quali la coesione familiare, il supporto materno e la capacità del gruppo familiare di cercare e accettare aiuto, hanno mostrato di essere forti predittori di un esito positivo a seguito di un evento traumatico. Bambini esposti a crimini violenti e con bassi livelli di supporto sociale, infatti, mostrano anche livelli più alti di PTSD (Kliewer, Lepore et al., 1998).
In altri termini, è nella relazione con gli adulti significativi che il bambino sviluppa importanti competenze cognitive ed affettive, quali la capacità di regolare le proprie emozioni, di comprendere i pensieri e gli stati affettivi propri ed altrui, o l’abilità di richiamare specifiche informazioni dalla memoria e rappresentarle narrativamente, che gli consentono di elaborare e gestire in modo più consapevole l’esperienza traumatica.
Il bambino, nell’interazione con il caregiver, elabora modelli mentali sempre più complessi, relativi a se stesso, agli altri e all’ambiente (Ammaniti, 2001), e sviluppa la capacità di regolare le proprie emozioni e di rendere significativo e prevedibile il comportamento altrui (Fonagy, Target, 2001).
Si assiste così ad un rapido progresso delle capacità di riflettere sui propri processi mentali e sui legami fra pensieri ed emozioni, che consente a bambini già intorno ai 5/6 anni, di affinare e padroneggiare sempre meglio varie strategie cognitive ed affettive, per far fronte ad eventi traumatici.
Un adeguato livello di sviluppo in aree funzionali come il linguaggio, la regolazione affettiva e cognitiva e i processi di coping, accanto ad un contesto familiare e sociale favorevole, rappresentano allora fattori essenziali, per il bambino, nella gestione ed elaborazione dell’esperienza traumatica.
Peraltro, non è ancora chiaro se l’immaturità, caratteristica della prima infanzia, in alcune di queste aree funzionali, possa rappresentare un fattore protettivo nei confronti di un evento traumatico (Kazak et al.,1997; Salmon, Bryant, 2001 ).

4. ASPETTI PSICODINAMICI ED EVOLUZIONE CLINICA DEL PTSD
Non tutte le persone esposte ad un grave evento traumatico vanno incontro ad un DSPT. La reazione soggettiva dell’individuo e la qualità del supporto sociale di cui dispone, sono fattori determinanti nell’insorgenza del disturbo.
In questo senso, la gravità di uno specifico stress và accuratamente distinta dal suo impatto sull’individuo. L’ambiente, infatti, può offrire sostegno e proteggere il bambino dagli effetti del trauma, come anche aumentarne il disagio (Ammaniti, 2001).
Come già accennato, l’insorgenza e il decorso del PTSD nell’infanzia sono ampiamente influenzati da fattori individuali, sociali e da variabili legate alla situazione traumatica. I primi sono rappresentati, principalmente, dall’età del bambino, dalle competenze cognitive ed affettive di cui dispone, e da eventuali difficoltà di sviluppo precedenti al trauma. I fattori sociali fanno riferimento al grado di coesione, di funzionalità e di sostegno offerto al bambino dal contesto familiare e dalle risorse della comunità. Le caratteristiche della situazione traumatica, infine, riguardano il livello di esposizione al trauma, la durata e la gravità dell’esperienza, le persone implicate e le eventuali perdite significative in relazione all’evento.
I dati, presenti in letteratura, sull’evoluzione clinica del PTSD insorto nei primi anni di vita, mostrano che accanto ad una remissione completa dei sintomi, in un periodo variabile fra alcuni mesi ed un anno, sono frequenti anche reazioni al trauma più prolungate nel tempo e spesso dagli esiti più severi.
In bambini esposti ad eventi traumatici si possono così osservare, anche a distanza di tempo, varie difficoltà nello sviluppo del Sé, come bassa autostima, alterazioni nell’immagine corporea e scarsa efficacia personale. Sono frequenti, inoltre, difficoltà nella regolazione affettiva, con risposte meno flessibili ed adeguate agli eventi ambientali e crisi esplosive di rabbia, spesso accanto a relazioni interpersonali difficili con genitori e coetanei (Ammaniti, 2001).
Si può manifestare, inoltre, una varietà di sintomi che non soddisfa, in senso stretto, i criteri del PTSD, come somatizzazioni, alterazioni dell’immagine corporea, depressione protratta, disturbi dissociativi e comportamenti fobici ed ossessivi (Gabbard, 1994; Sgarro, 1997).
Zlotnic et al. (2001) hanno evidenziato alti livelli di disturbi psicosomatici ed alessitimia in soggetti che durante l’infanzia hanno subito gravi maltrattamenti ed abusi. È probabile che l’incapacità di identificare o verbalizzare i propri stati affettivi rappresenti, in questi soggetti, una difesa dal timore di poter risperimentare le intense e spiacevoli emozioni legate al trauma (Gabbard, 1994).
Per quanto concerne il rapporto fra PTSD nell’infanzia e depressione, si è osservato che lo sviluppo delle abilità di ragionamento astratto accanto ad una maggiore consapevolezza circa le conseguenze di possibili minacce, aumenta nei bambini con PTSD la possibilità di pensieri catastrofici e di un senso di angoscia, sconforto e sfiducia nel futuro (Salmon, Bryant, 2001).
Runyon et al.(2002), inoltre, investigando l’incidenza di sintomi depressivi in bambini con PTSD vittime di abusi, hanno rilevato come fattore di rischio il sesso femminile.
L’ampia letteratura su pazienti con disturbo borderline di personalità, inoltre, fornisce possibili evidenze a conferma del ruolo che le esperienze traumatiche nella prima infanzia, hanno nel determinare disturbi di personalità. Circa un terzo dei pazienti borderline soddisfa i criteri per il PTSD (Gabbard, 1994; Ammaniti, 2001). “Le esperienze traumatiche dell’infanzia possono contribuire alle difese che causano una distorsione dell’immagine, come la scissione, il diniego, l’identificazione proiettiva” (Gabbard, 1994, p.439).
Fonagy e Target (2001), nell’ambito della teoria sulla funzione riflessiva, avanzano l’ipotesi che i soggetti borderline siano state vittime di abusi e maltrattamenti durante l’infanzia, e che “vi abbiano fatto fronte rifiutando di concepire il contenuto della mente delle loro figure di riferimento, ed evitando efficacemente di pensare al desiderio del genitore di far loro del male. Essi procedono in modo difensivo ostacolando i loro processi metacognitivi di monitoraggio in tutte le relazioni intime successive. Inconsciamente, ma deliberatamente, limitano la loro capacità di rappresentare sentimenti e pensieri in se stessi e negli altri. (...) Tale inibizione può produrre sostanziali benefici per il soggetto, in quanto gli permette di eludere un dolore psichico intollerabile. (…) Molti dei sintomi dei soggetti con disturbo borderline di personalità possono essere compresi in termini di strategie difensive per disattivare la capacità di mentalizzazione o metacognitiva” (Fonagy, Target, 2001, p.91).
In questo senso, si può ipotizzare che il disturbo borderline di personalità rappresenti una forma complessa di PTSD (Ammaniti, 2001).
Profonde alterazioni a seguito di eventi traumatici sono state individuate anche a livello del sistema biologico di risposta allo stress, che include l’asse ipotalamico-pituitario-adrenocorticale e il sistema simpatico-surrenale. Stimolazioni eccessive e prolungate o stress di alta intensità possono determinare, infatti, cambiamenti neuro-ormonali e sinaptici che inducono alterazioni nelle funzioni di controllo legate all’aggressività e al ciclo sonno-veglia, sintomi reattivi, irritabilità o stati cronici disforico-ansiosi (Sgarro, 1997). Anche il sistema limbico, in particolare l’ippocampo e l’amigdala, appare connesso con le risposte allo stress. Bambini con PTSD, a seguito di severi maltrattamenti, presentano alterazioni stabili, con livelli più elevati di cortisolo nelle urine, di catecolamine e dopamine anche diversi anni dopo le esperienze traumatiche (Van Itallie, 2002).
Nello studio sull’evoluzione e gli effetti a lungo termine del PTSD, infine, sono particolarmente interessanti le varie ricerche condotte su bambini che hanno vissuto esperienze traumatiche in zone di guerra.
Un recente studio longitudinale (Thabet, Vostanis, 2000) ha investigato le conseguenze del conflitto israelo-palestinese su 234 bambini della Striscia di Gaza, fra i 7 e i 12 anni. Il follow-up a distanza di un anno, durante il periodo di pace, ha evidenziato una diminuzione nella percentuale di bambini con moderati o gravi sintomi PTSD dal 40,6% al 10%, senza alcun intervento terapeutico. Questi risultati mostrano che le reazioni al PTSD tendono a diminuire in assenza di ulteriori stress. Una rilevante percentuale di soggetti continua, tuttavia, a presentare disturbi emotivi e di comportamento, come paure ricorrenti, perdita di piacere, pensieri ed immagini ricorrenti, evitamento di certe situazioni sociali, disturbi psicosomatici, comportamenti aggressivi, sensi di colpa e mancanza di prospettive future,       probabilmente dovuti a vari stress sociali post-conflitto come, per esempio, il vivere in campi profughi..  
Peraltro, queste modalità di risposta ai traumi di guerra durante l’infanzia sono molto simili nelle varie culture, come individuato in una ricerca su 2976 bambini della ex Jugoslavia, fra gli 8 e i 14 anni (Smith et al., 2003).
I bambini che vivono in zone di guerra, inoltre, mostrano spesso forme di stress acuto per vari tipi di eventi traumatici che, in genere, non vengono esplorati dalle ricerche. Thabet et al. (2002), ad esempio, hanno osservato una percentuale maggiore di sintomi PTSD in bambini palestinesi a cui era stata bombardata o demolita la propria abitazione, rispetto ad altri tipi di eventi traumatici legati a violenze politiche.
Un ampia fonte di informazioni sugli effetti a lungo termine del PTSD occorso durante l’infanzia deriva, infine, dalle ricerche su individui sopravvissuti all’Olocausto e alle persecuzioni naziste che, a distanza di oltre sessant’anni, mostrano livelli d’ansia, di rabbia-ostilità, somatizzazioni e depressione significativamente più elevati dei gruppi di controllo (Amir, Lev-Wiesel, 2003).

5. STRATEGIE DI INTERVENTO
La valutazione del PTSD nella prima infanzia implica, anzitutto, l’attenta considerazione del livello di sviluppo cognitivo ed emotivo raggiunto dal bambino, affinché si eviti di confondere l’immaturità in alcune aree funzionali con le reazioni ad eventi traumatici.
È importante per il clinico capire il vissuto soggettivo del bambino e come questo ricorda e racconta l’esperienza traumatica. Il disegno rappresenta una tecnica assai utile a questo scopo. Si è osservato (Salmon, Bryant, 2001) che bambini dai 3 ai 9 anni, a cui viene data la possibilità di disegnare un evento emotivamente coinvolgente mentre lo raccontano, forniscono molti più dettagli rispetto all’eventuale richiesta della sola esposizione verbale.
In altri termini, disegnare mentre si racconta consente di superare la stretta associazione fra capacità linguistiche del bambino e quantità di informazioni riportate.
Anche l’uso di giocattoli e bambole sono metodi molto utilizzati per facilitare il racconto dell’evento passato, in particolare in caso di abusi e maltrattamenti.
In generale, il trattamento del PTSD nella prima infanzia ha come obiettivi l’esplorazione del trauma, fornire al bambino competenze nella gestione dello stress, identificare e correggere attribuzioni scorrette e distorsioni dell’evento, e coinvolgere attivamente il gruppo familiare (Salmon, Bryant, 2001).
I vari modelli di intervento, da quello psicoanalitico al cognitivo-comportamentale, devono mostrare la massima cautela nell’utilizzare con i bambini, in particolare nella prima infanzia, tecniche e strategie consolidate nel trattamento dei pazienti adulti.
L’utilizzo dell’esposizione prolungata (P.E.) per il controllo dell’ansia (Sgarro, 1997), o la ristrutturazione cognitiva per modificare convinzioni ed assunti irrazionali, ad esempio, richiede un’accurata e precedente valutazione delle competenze metacognitive del bambino e dalla sua capacità di regolare le emozioni.
Discorso analogo va fatto nell’utilizzo di tecniche espressive, psicodinamicamente orientate, che richiedono una buona capacità dell’Io di bambini più grandi ,di gestire l’ansia e gli affetti negativi derivanti dal racconto dell’esperienza passata.
Assimilare ed integrare le informazioni relative all’esperienza traumatica richiede nel bambino una complessa ri-organizzazione degli schemi mentali e dei modelli rappresentazionali pre-esistenti, attraverso adeguate strategie di “adattamento” al trauma, di coping e revisione di pensieri e percezioni distorte.
Bambini con una storia di abusi e maltrattamenti prolungati, inoltre, possono mostrare un inibizione della funzione riflessiva (Fonagy, Target, 2001), ovvero della capacità di “leggere” la mente altrui e di cogliere sentimenti, pensieri ed intenzioni che diano significato ai comportamenti.
“Il transfert focalizza il paziente sullo stato mentale dell’analista che prova ad immaginare le sue credenze e i suoi desideri. L’esperienza ripetuta di trovare se stesso nella mente del terapeuta, non solo favorisce la rappresentazione di sé, ma rimuove anche la paura di guardare, propria del paziente” (Fonagy, Target, 2001, p.385).
Il clinico deve assicurarsi, nel trattamento dei traumi nella prima infanzia, che il bambino comprenda e condivida gli obiettivi e le tecniche di intervento, modificandone la complessità in relazione alle esigenze del caso. 
L’intervento deve, inoltre, tener conto degli effetti a lungo termine del trauma, che possono essere osservati solo in stadi di sviluppo successivi e che, spesso richiedono la programmazione di trattamenti “su misura”e nel tempo.
Coinvolgere il gruppo familiare, infine, rappresenta un obiettivo essenziale della terapia, viste le difficoltà che molte giovani vittime di eventi traumatici hanno nel valutare e raccontare le loro esperienze. È importante, allora, aiutare gli adulti significativi ad offrire adeguato supporto ai loro figli dopo il trauma. Questo implica lo sviluppo nei genitori, di una serie di capacità, come un accurata interpretazione del comportamento del bambino; capire quando poter iniziare la conversazione o essere preparati nel caso sia il bambino ad avviare il racconto; aiutarlo a definire e gestire le sue emozioni.
I parenti, inoltre, hanno un importante ruolo nel favorire l’utilizzo di appropriate strategie di coping da parte del bambino. Varie evidenze, infine, suggeriscono che i genitori sono molto spesso più angosciati dei loro figli coinvolti in eventi traumatici, e potrebbero beneficiare di un sostegno psicologico per affrontare tale situazione.
In generale, includere il gruppo familiare nell’intervento rappresenta un importante fattore positivo sull’outcome dei PTSD nell’infanzia.

Bibliografia

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